Narriamo per dire ciò che non potremmo dire. Nella vita quotidiana, c’è una linea di confine tra il dicibile e l’indicibile. Non è una linea fissa e definita, ma mobile e soggetta a continui spostamenti. Però rimane sempre lì, tracciata più in là o più in qua, a dimostrarci che non siamo capaci di dirci tutto o forse che non vogliamo farlo per motivi di decoro sociale, di opportunità politica, di censura culturale, ecc.

Ebbene, è oltre questa linea che si avventura la narrazione, nelle sue varie forme. In alcuni casi – quando è narrazione della devianza e della trasgressione – in maniera evidente. In altri casi, quando è narrazione apparente della quotidianità, in maniera più subdola e indiretta.

Ma chi ricorda le narrazioni familiari televisive, ad esempio, non potrà non rendersene conto. Basti pensare soltanto alla grandi serie americane. Anche quelle volutamente più innocue, dicono e mostrano qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto taciuto, almeno in pubblico. La più tradizionale e conservativa di tutte, “I Robinson”, ci mostra un doppio non detto: che una famiglia di colore può essere fondata su valori più sani e più forti di una famiglia bianca, e che una famiglia di colore può essere ricca e borghese. Ancora, famiglie anomale, ci mostrano quanto sia mutevole il concetto stesso di famiglia, che va socialmente ridefinito da nucleo di legami genetici a nucleo di legami affettivi: “Friends”, “Seinfield”, “How I met your mother”, “The L Word”. Fino ad arrivare a famiglie comicamente disfunzionali, “Gilmore girls”, o tragicamente disfunzionali “I Soprano” o “Six feet under”. In ognuna di queste realtà familiari si annida una mina, una potenziale minaccia all’ordine costituito, una provocazione che rimette in gioco le definizioni classiche: come quella di coppia, “Will &Grace”, o quella del ruolo sociale della donna, “Sex and the city” e “Desperate Housewife”.

Altri esempi si potrebbero attingere dalla letteratura e dal cinema. Ma confermerebbero tutti la stessa cosa. Che ha senso narrare solo se si va a illuminare un angolo di realtà ancora oscurato. E se, nel farlo, si cerca di dargli una definizione, di nominarlo, di farlo uscire dall’anonimato per conferirgli cittadinanza linguistica. Perché soltanto ciò che entra nel linguaggio comincia a esistere.

Di questa importante funzione della narrazione ci parla in termini espliciti lo scrittore Edward M. Forster nel suo saggio “Aspetti del romanzo”. Dice Forster che “noi siamo persone dalla vita nascosta invisibile”. E che soltanto nelle narrazioni abbiamo la possibilità di accedere a questa parte segreta – fatta di pure passioni, sogni, fantasie inconfessabili, gioie, dolori – trovando “compensazione alla mancanza di trasparenza della vita stessa”.

Una mancanza di trasparenza che non sempre trova ragione nelle restrizioni sociali o culturali, perché i limiti contro cui ci scontriamo sono anche fisiologici. Propri alle inettitudini dell’essere umano, come sottolinea sempre Forster: “Noi non possiamo comprenderci a vicenda se non in maniera grossolana: non possiamo, nemmeno desiderandolo, rivelare noi stessi; quella che chiamiamo intimità è qualcosa di molto approssimativo; la conoscenza perfetta è un’illusione”. Per questo narriamo, allora, per dar vita almeno un solo istante a questa illusione.

Paradossalmente, rientrano in questa categoria anche le narrazioni dell’incomunicabilità, che stanno lì a dirci un altro non detto: che non saremo mai capaci di comunicare davvero gli uni con gli altri. Un’altra scomoda verità nascosta. Un altro segreto da rivelare.

Con questo, abbiamo terminato la nostra breve circumnavigazione del concetto di narrazione in senso lato, quindi dell’atto narrativo spontaneo. Abbiamo mostrato che narrare è un istinto naturale, un modus operandi della nostra mente per riorganizzare in modo consequenziale e temporale il vissuto personale, e che siamo quindi tutti narratori. Abbiamo indagato le caratteristiche e le funzioni principali a cui la narrazione assolve all’interno della nostra esistenza. Ora è tempo di voltare pagina. E di cominciare un nuovo viaggio dentro le tecniche narrative per capire come funziona e come si può riprodurre una narrazione professionale, indipendentemente dal fatto che si esprima sotto forma di narrativa, film, radiodramma, telefilm, pièce teatrale, ecc.

Articolo Precedente

Una riflessione sui moderni valori dell’Europa
Al nuovo Maxxi la mostra di Ataman

next
Articolo Successivo

Benvenuti al Sud?

next