Anni fa il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf definì la politica “drammatizzazione dell’insignificante”. Poi ci siamo resi conto che quanto veniva enfatizzato a scopi politici non riguardava soltanto inezie. Anzi. E ha cominciato a dilagare l’uso distorto della paura per manipolare gli stati d’animo collettivi; che abbiamo visto alla prova – tra l’altro – nell’immenso e tragico pasticcio culminato nell’invasione dell’Iraq delle “armi di distruzione di massa che non c’erano”.

Lo stesso dicasi per la “questione nucleare”. Su cui è recentemente tornato anche Il Fatto Quotidiano on line, rivelando il coté affaristico che sta dietro al modo con cui viene affrontato il rischio incombente di carestie energetiche prossime future. Ridotto alla necessità – asserita senza alternative – di operare la scelta che risolverebbe il problema epocale con un po’ di centrali all’uranio.

Era il tema che ponevo nel mio precedente intervento in questo spazio.

Ringrazio gli amici e le amiche che ne hanno discusso con me. Però il “taglio” che provavo a dare non è risultato sufficientemente chiaro. Naturalmente per colpa mia.

Ora ci riprovo…

In effetti, quando si apre il dibattito in materia energetica le posizioni sono immancabilmente due; come si diceva un tempo: quelle degli “apocalittici” e quelle degli “integrati”. Riformulate negli schemi fondamentalistici propri dell’epoca in cui viviamo: “sviluppisti” contro “propugnatori della decrescita” (e qualcuno aggiunge l’aggettivo “felice”). E che, quando vengono a contatto, producono soltanto la ridda babelica di cifre che fanno a capocciate tra loro, quel gorgo infernale in cui diventa impossibile trovare un qualsivoglia, ragionevole, punto d’accordo. Del resto, posizioni contrapposte ma altrettanto “militanti”, a totale scapito dell’atteggiamento che personalmente caldeggerei: ossia, quello critico.

“Le riserve di petrolio sono ancora immense…”, “l’uranio si trova dappertutto…”, “non è vero, state prosciugando il pianeta…”, “il buco dell’ozono…”, “il buco non esiste…”.

Insomma, una guerra di religione che – appunto – può solo culminare nell’uccisione rituale del tentativo di acquisire un briciolo di condivisibili certezze al riguardo.

Eppure – sempre a mio sommesso avviso – almeno due aspetti dovrebbero essere assolutamente fuori discussione:

  1. non è reale interesse di nessuno che la critica del vigente modo di produrre e consumare prosegua fino a mettere in discussione il valore del lavoro, tuttora primo determinante sociale e via maestra all’inclusione (ossia – al tempo stesso – fonte di autostima e reddito da occupazione, status e ruolo): la fine del lavoro è un progetto che può piacere solo ad agiati rentiers menefreghisti;
  2. non sta scritto da nessuna parte che questo modo di produrre e consumare sia privo di alternative (Tina, there is no alternative); sia – per dirla con Ford e Taylor – l’one best way, la migliore soluzione a disposizione.

Il fatto è che ormai ci siamo assuefatti a un macroscopico livello di insensatezza, per cui viene metabolizzato come “naturale” passare ore in coda nelle strade trasformate in camere a gas da macchinoni sempre più grandi (con un solo viaggiatore), per cui diamo per scontate le mortifere devastazioni in atto nel nostro stesso habitat. Perché siamo vittime di non casuali rimozioni del problema; mentalmente intorpiditi nella corsa verso l’abisso.

Insisto: il problema, prima che tecnologico è politico. Ma la politica non lo iscrive nelle proprie agende, confinandolo nelle sfere confusioniste dei presunti esperti.

Almeno due terzi dell’energia fossile che bruciamo è per autotrazione, eppure poco o nulla si fa per dirottare la mobilità di cose e persone dai pneumatici privati al trasporto pubblico. Consumiamo energia per termoregolare abitazioni e uffici che disperdono caldo e freddo nell’atmosfera, risorse preziose che potrebbero essere salvaguardate da differenti criteri costruttivi (ma in Germania la coibentazione è obbligo di legge, come del resto per la provincia di Bolzano).

Questo – sempre a mio avviso – è il punto: il cortocircuito della politica come progettazione/regolazione del progresso sociale. A vantaggio degli interessi economici impegnati a tutelare il proprio (cieco) tornaconto da un’organizzazione dissipatoria della vita collettiva.

Lo scriveva benissimo qualche mese fa un grande intellettuale latinoamericano, Eduardo Galeano: “Il diritto allo spreco, privilegio di pochi, dice di essere la libertà di tutti. Dimmi quanto consumi e ti dirò quanto vali. Questa civiltà non lascia dormire né i fiori, né le galline, né la gente. Nelle serre i fiori sono sottoposti a luce continua affinché crescano più rapidamente. Nelle fabbriche di uova, anche le galline hanno la notte proibita. E la gente è condannata all’insonnia, per l’ansietà di comprare e l’angoscia di pagare. Questo modo di vivere non è benefico per le persone, ma lo è per l’industria farmaceutica. Gli USA consumano la metà di sedativi, ansiolitici ed altre droghe chimiche legalmente vendute nel mondo e più della metà delle droghe proibite vendute illegalmente, e non è cosa da poco, se si tiene conto che gli USA rappresentano solo il cinque percento della popolazione”.

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