Non ha fatto nemmeno mezzo passo indietro, conforme al ruolo che si è dato, quello di rompighiaccio degli equilibri sociali in Italia. Parlando al Meeting di Cl a Rimini, in un intervento molto atteso dopo i fatti degli ultimi giorni, Marchionne ha rivendicato tutto il lavoro fatto alla Fiat, i successi americani e le congratulazioni ricevute da Obama, la sua capacità di tirare fuori l’azienda dai guai del 2004, per poi arrivare al nocciolo della questione, la bontà dell’accordo di Pomigliano, ringraziando apertamente e platealmente Bonanni e Angeletti e, senza mai nominarle, accusando la Fiom e la Cgil di conservatorismo. Soprattutto di tentazione, da minoranza, di far saltare gli accordi raggiunti dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori.

Ma soprattutto ha ribadito la legittimità di quanto fatto dalla Fiat a Melfi, dove «sono stati compiuti atti illeciti al limite del sabotaggio». La Fiat, ha detto Marchionne, ha onorato integralmente il dispositivo della magistratura, reintegrando i tre operai licenziati a luglio, facendoli entrare in fabbrica ma ribadendo la centralità di un rapporto «di fiducia e di lealtà». E facendo un affondo proprio verso la Fiom e quei tre operai che stanno conducendo una battaglia controcorrente: «La dignità non è patrimonio esclusivo di sole tre persone», anche noi abbiamo i nostri diritti da difendere e tutelare. Quindi nessuna marcia indietro, nessun gesto di disponibilità e distensione, come in mattinata chiedeva Guglielmo Epifani in un’intervista al Corriere della Sera.

Un comportamento coerente con l’impianto ideologico esposto da Marchionne al Meeting ciellino, un impianto basato sull’etica della impresa che, al tempo della globalizzazione è basata su ritmi, velocità, capacità di reazione e quindi flessibilità. L’unica chance che ha l’impresa di reggere alla competizione è agire in tempo reale sul mercato, garantendosi «movimento e decisione, reazione in tempi brevissimi e ritmo molto più veloce rispetto alla concorrenza». Per questo il nodo centrale di Fabbrica Italia, il piano di sviluppo che la Fiat ha impostato ad aprile e che si basa essenzialmente sul riavvio della produzione a Pomigliano, ha bisogno di un elemento cruciale: «Che gli stabilimenti lavorino in modo costante, continuo e affidabile». Il fatto che la Fiom non abbia firmato, che il 40% di quella fabbrica abbia detto no all’accordo, che a Melfi uno sciopero abbia bloccato la produzione è qualcosa che la Fiat di Marchionne non si può permettere, non vuole permettersi. Ecco così spiegata la durezza dimostrata in questi giorni, la determinazione a non arretrare di un millimetro, il bisogno di avere una manodopera disponibile e affidabile. Al millimetro, al secondo.

Questo è il vero obiettivo aziendale. Per ottenerlo, Marchionne ha ovviamente bisogno di una cornice ideologica in grado di sostenere un modello in cui i sacrifici sono richiesti a una parte sola mentre l’azienda si riserva di muoversi liberamente sul mercato, senza tra l’altro rinunciare davvero a miriadi di incentivi pubblici, Italia compresa: cos’è, altrimenti, il ricorso alla Cassa integrazione a Melfi?

Ecco, dunque, che il nocciolo “culturale” dell’intervento, preparato da un’introduzione sulle proprie origini migranti, sulla difficoltà ma anche l’importanza del viaggio, del cambiamento, è basato sull’artificio retorico delle due parti, una delle quali «difende il passato e una che guarda avanti; fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi schemi non ci sarà mai spazio per nuovi orizzonti». Insomma, quella che va messa nel cassetto è è «la lente deformata del conflitto: non possiamo pensare che c’è una lotta tra Capitale e Lavoro, tra Padroni e Operai». Un’affermazione bizzarra se si pensa al basso numero di ore di sciopero che caratterizza l’economia italiana da diversi anni a questa parte, come giustamente faceva notare un editoriale di Massimo Mucchetti sempre sul Corriere della Sera.

Alla Fiat di Marchionne crea però problemi anche la minima obiezione – in fondo la Fiom è disponibile a firmare la sostanza del piano aziendale di Pomigliano, cioè 18 turni e riduzione delle pause ma chiede di rispettare il diritto di sciopero – ed è qui che poggia il sentito ringraziamento, con tanto di convinto applauso della platea, a «Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti che ci stanno accompagnando in questo processo di rifondazione».

Dei due, Marchionne ha voluto riprendere un ragionamento centrale a proposito di Pomigliano e Melfi: «Un sistema corretto deve garantire che gli accordi vengano stipulati» e «non si possono usare i diritti di pochi per piegare i diritti di molti». Però, a quanto pare, nessuna azienda, né tantomeno Cisl e Uil sono disposte a introdurre per legge il referendum tra i lavoratori per confermare gli accordi.

Insomma, come si vede un intervento di attacco, per nulla intimidito dalle polemiche e nemmeno dalla lettera del Capo dello Stato che Marchionne non nomina mai (e a cui ha inviato una sua personale lettera come rilevano Corriere della Sera e Stampa). Ma invece un intervento basato sulla centralità dell’impresa, sulle necessità della Fiat – «che perde soldi solo in Italia eppure investe» – sul ruolo dell’imprenditore e sulla necessità che il lavoro ne segua i movimenti, le azioni, le decisioni. In altri tempi si sarebbe detto un intervento puramente “padronale”, sia pure in chiave moderna. Un termine che a Marchionne non piace e che intende superare. Ma che ai lavoratori Fiat probabilmente dice ancora qualcosa.

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