Pesce, la truffa è in agguato ai danni dei consumatori, specialmente da quando sui nostri mercati arrivano grandi quantità di specie low cost dai mercati asiatici e dall’Africa, complici la crisi e la globalizzazione dei mercati.

Partiamo dal Pangasio il cui nome suona di buono, non molti sanno, però, che si tratta di un pesce dallo scarsissimo valore nutrizionale (contiene tanta acqua, poche proteine e pochi grassi buoni). che arriva dal Vietnam e viene allevato in uno dei fiumi più inquinati al mondo: il Mekong. Lungo il suo percorso fluviale in Cina insistono ben 210 aree industriali le quali scaricano in mancanza di rigorosi controlli i reflui nelle stesse acque che più a valle – nelle province vietnamite di An Giant, Can Tho e Dong Thap – servono ad allevare il Pangasio. Da noi arriva in filetti congelati bianchi e visto il suo costo, che si aggira sui 4 euro all’ingrosso, (n.d.r. se si considera che è un prodotto lavorato, la materia prima non vale davvero nulla!) finisce spesso nelle mense oppure viene spacciato da furbi commercianti per filetti più nobili quali il merluzzo o la cernia. Perché la colorazione si avvicini ancora di più ai pesci nostrani ecco che viene trattato con speciali additivi, spesso innocui, ma che, se adoperati da mani inesperte, cioè non dosati nelle giuste quantità, possono provocare danni alla salute.

Altro pesce low cost è il persico africano (volgarmente persico del Nilo e da non confondere con il prelibato pesce persico nostrano) che viene allevato specialmente nel Lago Vittoria in Africa, in condizioni ambientali disastrose e il cui mercato come ha mostrato un recente docufilm (L’incubo di Darwin, di Hubert Sauper) è legato all’import export di armi. Anche il persico africano arriva in morbidi filetti spinati e pronti all’uso che fanno felici le casalinghe frettolose, ma il rischio è che venga spacciato per filetti più nobili e pagato a peso d’oro. A queste due si aggiunge una terza specie dal nome poco rassicurante, la Filapia sempre di produzione orientale che venduta a prezzi ancor più stracciati sta pian piano conquistando i mercati europei. Oltre alle conseguenze legate alle truffe, questi pesci creano una concorrenza sleale nei confronti del prodotto nostrano. E se i pesci di provenienza italiana sono controllati grazie alla “rintracciabilità” sin dal produttore (pesca, acquacoltura), per quelli extracomunitari i controlli sono più difficili, le partite dal Vietnam o dall’Africa potrebbero arrivare da qualunque frontiera dell’Unione (la Romania?) e ottenere l’ingresso comunitario. Certo, vi sono dei controlli a monte negli stabilimenti da parte della Comunità, ma le garanzie per i consumatori diminuiscono.

«Con il Pangasio – riferiscono i veterinari della Asl di Bari – per la salute non vi sono pericoli più che con altre specie, in caso contrario l’avremmo vietato. Ma lo teniamo sotto stretto monitoraggio dopo il caso di una partita sequestrata a Milano un anno fa e segnalata a noi dal sistema di allerta comunitario”.

Altro rischio sensibile dei pesci low cost di importazione sono le sostanze conservanti adoperate e cioè i nitrati, i solfiti, l’anidride solforosa (pericolosa anche nelle carni perché fornisce un bell’aspetto anche a quelle andate a male) nelle giuste quantità non sono dannosi, ma se chi li adopera – così come per i pesticidi in agricoltura – abbonda può creare danni alla salute.

Le garanzie per i cittadini vengono da tre magiche paroline “etichettatura”, “tracciabilità” e “rintracciabilità” a beneficio dei “consumatori finali” (così le norme definiscono gli utenti finali e i ristoratori) sui banchi delle pescherie e dei mercati per tutti i pesci esposti devono essere descritte in modo ben visibile le seguenti caratteristiche: la denominazione commerciale italiana, il metodo di produzione (ovvero se il pesce è stato pescato, allevato o è di acquacoltura) e la zona di cattura, Mediterraneo, Atlantico etc. Quest’ultima può anche essere una sigla, ma la pescheria deve esporre una mappa che indichi con chiarezza la provenienza. Deve essere indicato se il pesce è fresco, congelato o decongelato e in questo caso esserci l’indicazione che il prodotto deve essere consumato nelle successive 24 ore. Chi non ottempera a queste norme è passibile di multe amministrative da 600 a 3500 euro, ma nel caso in cui venga spacciata una specie per un’altra si tratta di frode, e la materia diventa penale.

Eppure come dimostra l’intensa attività di sequestri della Guardia Costiera c’è chi ci prova, e così le “cappa” asiatiche sono vendute per vongole nostrane e diverse specie di squaliformi spacciati per il nobile pesce spada. Molto comune è anche la vendita della “Molva” – più conosciuta da noi come “Moscia” un pesce che vive anche in alte profondità dalle carni bianche e dal prezzo contenuto – per merluzzo.

Quali i rischi per i pesci di acquacoltura, spigole e orate così frequenti sui banchi di pesce e per gran parte in arrivo dalla Grecia ormai a prezzo stracciati?

“Per le specie di acquacoltura – riferiscono i veterinari della Asl di Bari – il pericolo potrebbe essere legato agli inibenti e cioè ai residui antibiotici, oggi è difficile ch superino determinate quantità perché i mangimi sono standard, ma bisogna tenere comunque alta la guardia. Di solito le Asl controllano con severità e rigore il 5% delle partite di pesce.

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