Per chi conosce Avatar, sembrerà un film già visto: indigeni cacciati dalle loro terre e l’uomo bianco che con prepotenza occupa e distrugge. Ma in questo caso non siamo su Pandora: l’azione si svolge sulla Terra e al posto dei Na’vi ci sono le popolazioni indigene di Brasile, Etiopia, Malesia, Perù e Guyana. Proprio in questi Paesi, infatti, è stata pianificata o è già in corso la costruzione di giganti dighe idroelettriche che devasteranno le comunità tribali, costringendo le loro genti a migrare e distruggendo i luoghi di caccia e di pesca.

Lo denuncia Survival International con un rapporto pubblicato pochi giorni fa secondo cui più di 300.000 persone saranno spinte verso la rovina economica e, nel caso di alcune popolazioni isolate del Brasile, verso l’estinzione. Il tutto nel nome di una “rivoluzione verde” che, attraverso la costruzione delle dighe, dovrebbe portare verso un approvvigionamento di energia a basso tenore di carbonio in nome della pulitissima energia idroelettrica.

Ma di pulito, dal punto di vista etico e paesaggistico, c’è decisamente poco. Secondo il rapporto dell’associazione umanitaria, almeno 200.000 persone provenienti da otto tribù sono minacciate da progetti in corso di realizzazione. Altrettante, soltanto in Etiopia, si trovano già a dover fare i conti con Gibe III, un mostro di 243 metri nel fiume Omo a cui stanno lavorando anche imprese costruttrici italiane. Altre 10.000 persone a Sarawak, in Malesia, sono state costrette a fare armi e bagagli per lasciare spazio alla diga Bankun, che verrà inaugurata il prossimo anno. Ma i costruttori sono entusiasti dei loro progetti, convinti di tenere in mano la soluzione per combattere i cambiamenti climatici.

Chi sta dietro a tutto questo? Secondo il rapporto, la Banca Mondiale sarebbe uno dei maggiori finanziatori di questo progetto: il suo contributo ammonta a 11 miliardi di dollari. Anche le Nazioni Unite giocano la loro parte finanziando le dighe attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito (Cdm da Clean development mechanism), un procedimento previsto dal Protocollo di Kyoto che permette alle imprese dei Paesi industrializzati con vincoli di emissione di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas serra nei Paesi in via di sviluppo senza i suddetti vincoli. I Paesi industrializzati ottengono così i cosiddetti crediti di carbonio, la “moneta” per comprare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni. Secondo il Cdm Watch, circa un terzo di tutti i progetti Cdm registrati nel 2008 riguardavano il settore idroelettrico. Le dighe diventano quindi la via più gettonata per far guadagnare ai Paesi sviluppati dei crediti di carbonio.

Ciò che chiede adesso Survival International è che i lavori vengano bloccati a meno che le tribù non diano il loro consenso. Ma la storia, come insegna l’esperienza della diga delle tre Gole in Cina, ci racconta che i buoni propositi portano a un happy ending soltanto nei film.

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