In questi tempi di relazioni arcaiche, se non rudimentali, tra potere e arte si ricorda spesso come i talenti abbiano trovato modo di farsi largo sempre e comunque, e che anzi un po’ di vita grama abbia contribuito ad affinarne l’ingegno. Retorica fondata su verità, ma da maneggiare con cura. Penso sia bene ricordare da dove si viene, per meglio sapere cosa sia la libertà, di cosa sia capace una politica culturale lungimirante, cosa significhi per un paese la sua produzione artistica. Ma chi oggi, ispirato da tale retorica, pretende di gestire questi rapporti spingendoli sempre più sul piano dell’economia e dell’intrattenimento (in mutande ci fate ridere meglio!) somiglia a chi invoca le fatiche dei contadini di un secolo fa per ottenere i pomodori di una volta.

Tra le narrazioni restano memorabili quelle che ripercorrono le mille disavventure affrontate da coloro che nella vita hanno scelto ad esempio il teatro, sia di chi poi ha conosciuto la gloria, sia chi invece soltanto la polvere. L’andamento picaresco, la sfida alla collettività, gli espedienti, i “patti giovanili stretti guardando le città dall’alto”, come scrive Francesco Cataluccio nel suo “Vado a vedere se di là e meglio” (Sellerio, 410 pagine straordinarie, anche perché così equilibrate, sapienti, ironiche… per soli 15 euro), sono ingredienti che ci legano alla narrazione, ci fanno tirare il sospiro di sollievo a ogni pagina per l’ammirazione che possiamo alimentare, stando al fresco della nostra amaca, per le sfighe eroiche conosciute da grandi e piccini del Grande Circo delle Arti. Il libro di Cataluccio, dal titolo bellissimo, ed emblematico di una ricerca inesausta, della curiosità per tutto, senza clamore, è molto importante anche a questo riguardo. Il patto giovanile stretto guardando una città dall’alto nel suo caso correva tra lui e il suo compagno di banco alle elementari Gabriele Sacerdoti: mettersi in cerca dei Giusti nascosti, quelli che secondo la leggenda ebraica sarebbero presenti in ogni epoca nella quantità esatta di 36. Un piano di viaggio che porta Cataluccio ad esplorare per i quaranta anni successivi l’immensa fioritura della cultura ebraica dell’Europa centro orientale, con un perno centrale nella Polonia. Un viaggio fatto di incontri notevoli, però vissuti (e raccontati) con sprezzatura autentica, passione e pacatezza, un filo della cronaca autobiografica solido e impalpabile, come solo uno scrittore sa tenere tra le dita e al contempo percorrere in punta dei piedi, con gran nonchalance. L’incontro sodalizio con Kapuscinski, con Hrabal o con il mitico Jan Kott (ricorda Cataluccio Peter Brook diceva che “è l’unico degli studiosi di Shakespeare a sapere che se qualcuno bussa alla porta alle cinque del mattino, quello non è il lattaio”)… i Giusti sono scrittori e teatranti. E ci si diverte a sapere come Cataluccio sia riuscito persino a far ridere Beckett… con il racconto appunto delle disavventure affrontate da una compagnia polacca per mettere in scena il suo Krapp nella penuria di banane.

Se io lo raccontassi qui non sarei capace di altrettanta grazia, romperei tutto, dovete assolutamente leggerlo, il grande attore alle prese con banane verdi rachitiche immangiabili, la tournée tunisina…

“Le banane polacco-tunisine di Krapp divennero così il simbolo dell’amarezza dei sogni e del ridimensionamento delle illusioni, dell’impossibilità di legare tutta la propria vita a un unico frutto”.

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