Ha agito di testa sua, senza neppure ascoltare la volontà di pazienti – sì, ma l’ha fatto a fin di bene, per alleviare la sofferenza. È controverso il caso di Howard Martin, semplice medico di famiglia della contea di Durhan, Inghilterra del nord, accusato di aver “aiutato a morire”, almeno 18 malati gravi durante gli di anni di esercizio della sua professione. La vicenda è emersa nonostante il proscioglimento del dottore dall’accusa di aver ucciso 3 pazienti nel dicembre 2005 con dosi massicce e fatali di antidolorifici alla morfina. A due di loro, aveva ammesso in un’intervista al quotidiano Daily Telegraph a fine giugno, ha provocato la morte senza richiesta del loro consenso.

Solo venerdì scorso i parenti di due famiglie delle sue presunte vittime gli hanno rivolto nuove accuse, tornando a chiedere la riapertura del processo a suo carico.
Il dottor Martin, che oggi a 75 anni è in pensione, ha sempre affermato con forza di voler portare la questione all’attenzione pubblica. Pur ammettendo le accuse, ha negato di aver ucciso i pazienti. “Ho agito per compassione cristiana, ha detto, credo soltanto di aver favorito la morte di persone che stavano soffrendo”. Come ha fatto anche nel caso del figlio 31enne malato di cancro, aiutato a morire nel 1988 con un’iniezione letale.

Gli stessi familiari degli assistiti del medico di Durham sono divisi tra pro e contro. Da un lato ci sono le denunce di Paul Gittins, che ha visto il padre Harry morire nel 2004 a 74 anni, a cui si aggiungono quelle delle figlie di Mary Magginson, 60enne morta nel 1986 senza soffrire di malattie particolarmente gravi, e di Hillary Plew, il cui padre Jack morì a 66 anni in circostanze che lei ritiene non chiare. Questi due ultimi casi sono stati rivelati venerdì scorso dal seguito dell’inchiesta del Telegraph.

Contrario alla riapertura del processo si era detto invece Albert Cubitt, oggi 88enne, che nel 2001 ha visto aiutare a morire la moglie Bessie, malata di cancro al polmone. Cubitt  racconta in questo modo la sua dolorosa vicenda: “Quello tra me e mia moglie è stato un grande amore. Ma sono arrivati tempi in cui vedevo che lei non poteva neppure nutrirsi. E io pensavo: Bessie, sarebbe meglio che te ne andassi in pace. Così è stata lei a chiedere”, dice riferendosi all’intervento finale del medico di famiglia. A cui dichiara di essere profondamente grato, tanto da definirlo un “angelo di carità”.

Il dibattito sul suicidio assistito è molto accesso in Gran Bretagna. Nel 2008 Debby Purdy, malata di sclerosi multipla, si rivolse apertamente all’autorità giudiziaria competente, il Diretcor of Public Prosecution (all’epoca Ken MacDonald), chiedendo se il marito sarebbe stato perseguito nel caso in cui lei avesse espresso la volontà di essere aiutata a morire. In seguito all’appello, nel febbraio 2010 il nuovo procuratore generale Keir Starmer ha tracciato le linee guida per il suicidio assistito. Sebbene anche i parenti dei malati che praticano “omicidi sulla base della pietà” possano rischiare di esser incriminati e il restrittivo Suicide Act del 1961 resti ancora in vigore, le regole stilate da Starmer lasciano un certo spazio alla libertà personale nella scelta del proprio destino ai pazienti gravi o terminali.

Il caso di Howard Martin non rientra nelle regole tracciate di recente. Se fosse provato il suo aver agito senza il consenso del paziente, si aprirebbe di nuovo per lui il fronte giudiziario. A sua difesa, Martin solleva un argomento “di fatto”, ricordando come in molti casi i medici “aiutano a morire” pazienti terminali semplicemente sulla base del loro giudizio e di un richiamo all’umana pietà. Una realtà diffusa, afferma, che non si può ignorare. Che tuttavia non dovrebbe lasciare spazio tanto all’arbitrio del medico quanto piuttosto – dove possibile – alla volontà del malato.

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