Boris Diop e Aminata Traoré sono due tra i maggiori intellettuali del Mali e del Senegal una volta uniti verso un sogno panafricano: entrambi ambientalisti, entrambi primi attori nei Forum Sociali svoltisi in Africa dopo Porto Alegre (Bamako e Dakar), entrambi riconosciuti dalla popolazione come riferimenti per il riscatto postcoloniale e per la rivalutazione della cultura nera. Li ho incontrati due volte per parlare loro dell’opportunità per i loro paesi inondati di sole di lasciarsi alle spalle l’era dei fossili.

Parlare di questo in città oppresse dallo smog e sulle rive di fiumi solcati da piroghe a motore che trasportano a 5mila chilometri dai pozzi d’origine bidoni di petrolio per alimentare centrali costruite 50 anni fa dai francesi, sembrerebbe velleitario. Eppure, un sole implacabile sfinisce una popolazione, che si limita a respingerlo con qualche riparo o a filtrarlo con splendide architetture di fango come la Grande Moschea di Djenné o con pergolati sapientemente intrecciati di fibre di baobab. Sono a disposizione oggi pannelli solari sempre più efficienti, collettori termici a grande resa, pale eoliche con cui presidiare le gole o le coste marine, idrocentraline per sfruttare i piccoli salti. Mentre cercavo di illustrare questi prodigi, sono stato interrotto dai due e le loro domande sono rimaste per me una formidabile lezione di come si debba progettare l’era solare. Provo a riportarne di seguito qualcuna, così come è rimasta conservata nei miei appunti.

“Perché serve l’energia che non proviene dai muscoli e dalla metabolizzazione del cibo?”. “Quanta ne occorre in una comunità, dato che qualsiasi altra previsione a più largo raggio sfugge ad un controllo e ad una programmazione partecipata?” . “A che velocità è preferibile muoversi?”. “Quale mix di tecnologie risponde meglio alla tipologia produttiva, sociale e geografica di un territorio?”. “Quanto cibo risulta e quanto viene distrutto alla fine di un ciclo energetico?”.”Quanta energia occorre per non far emigrare un nostro giovane e quanta per mandarlo a scuola?”.”Quali sono, secondo voi, le priorità qui in Africa cui destinare l’erogazione di energia elettrica così scarsa?”.

Ragionando con loro ho capito che non ha senso un’energia separata dalla vita; che non esiste una soluzione tecnica prefissata, ma che ogni luogo ha bisogno di un bilancio e di un mix di tecniche compatibili con la natura e la biosfera che lo caratterizzano; che le cucine solari o le piccole pompe d’acqua abbinate ai pannelli fotovoltaici sono le soluzioni più ambite; che l’igiene e le fogne, abbinate allo scorrimento di acqua sospinta da motori, sono le priorità assolute; che una sala da parto illuminata e con acqua calda o un gabbiotto con Internet satellitare costano assai poco e cambiano la vita di un villaggio; che – come afferma Diop – non c’è risparmio energetico maggiore di quello suggerito dall’esperienza dei vecchi e dal funzionamento della lingua e del cervello durante le riunioni in cui se ne discute. Anche i mondiali di calcio appena finiti in Sudafrica hanno parlato una lingua diversa, più ricca, più conviviale, più umana, che ha saputo trasfigurare la pura competizione da cui noi ricchi e ipertecnologici ci facciamo purtroppo travolgere. L’Africa ha tante cose da dire e da dirci. Sarebbe il caso di ascoltarla.

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