Microcredito. Una parola che evoca buone azioni, aiuti ai poveri, miracoli sociali in paesi disastrati come il Bangladesh o il Burkina Faso. In fondo è questa l’immagine che ci ha trasmesso il premio nobel per la pace 2006 Muhammad Yunus. Il fondatore della Grameen Bank, il “banchiere dei poveri” che, prestando poche centinaia di dollari a migliaia di donne e uomini, li ha aiutati a rimettersi in piedi, a crearsi un lavoro per uscire dalla disperazione.

«Non regalare i soldi. Presta il denaro e insegna ad usarlo in modo responsabile». E’ questo il motto di Yunus. La versione moderna e finanziaria di «dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita». Ottimo, allora. Viva il microcredito.

La nuova soluzione rapida e efficace per sconfiggere la povertà. Poi ti distrai un attimo, nel 2007 scoppia la bolla subprime, nel 2008 crolla Lehman Brothers, i mercati sono a un passo dall’autodistruzione, i governi pompano liquidità e le banche devono inventarsi qualcosa di nuovo per far ripartire la baracca. Molte ritornano alle vecchie abitudini: si indebitano per comprare titoli e poi rivenderli o rifilarli a milioni di presunti furbi (la cui madre è sempre inspiegabilmente gravida). Altre decidono che è ora di inventarsi qualcosa di nuovo.

Il barile, del resto, non è stato ancora raschiato del tutto. Si può ancora fare scarpetta. E’ vero, sono stati prosciugati i conti di milioni di poveri cristi in California, Illinois, New Jersey. Con l’illusione di una casa, dei mobili e di una macchina li si è riempiti di mutui, crediti al consumo, carte revolving. Ma i poveri non sono solo negli Usa. Se ne trovano in tutto il mondo. Perché non provare a intercettare i loro bisogni? E’ quello che stanno facendo molte banche. Che hanno riscoperto il “microcredito” come “possibilità d’investimento alternativo” che vi permette di “assumervi della responsabilità a livello sociale e di sviluppo politico”. Il sogno di Yunus diventa un prodotto a scaffale. Del resto il mercato non manca. Poi, un giorno di qualche settimana fa, il New York Times tuona dalle sue colonne economiche: “Al lupo! Al lupo! E’ arrivata la speculazione e l’avidità anche nel campo del microcredito”. Apriti cielo.

Si scopre che un piccolo gruppo di banche e finanziarie controlla ormai il 60% dei microcrediti a livello internazionale, con interessi che possono arrivare anche al 100%. Il problema dei tassi elevati – scrive il NYT – si fa sentire soprattutto in paesi come la Nigeria e il Messico, nei quali “l’altissima domanda per piccoli prestiti non può essere soddisfatta dagli operatori bancari tradizionali”. E’ in questo vuoto di mercato che si inseriscono avvoltoi come Te Creemos, un portale finanziario messicano che si propone come sostegno finanziario alla microimpresa, “snobbata dai circuiti finanziari classici”, grazie a tassi del 125%.

Oggi solo il 35% dei poveri che chiedono un microprestito viene assistito dalle ONG e appena il 5% da banche rurali, come quella di Yunus. Se, come dice il “banchiere dei poveri”, i tassi di interesse per i microprestiti dovrebbero avere un livello superiore del 10% o al massimo del 15% rispetto al costo della raccolta, almeno il 75% delle istituzioni di microfinanza nel mondo sarebbero da considerare in quella che Yunus stesso ha chiamato la “zona rossa degli squali del credito”.

Intanto, mentre le banche confezionano nuove brochure colorate con bambinetti sorridenti, figli di piccoli artigiani finanziati con ancora più piccoli prestiti, leggiamo sui quotidiani finanziari che Sks Microfinance “il numero uno indiano del microcredito” si quoterà in borsa, a Wall Street, mettendo sul mercato “azioni per un valore compreso tra 250 e 350 milioni di dollari”. La quadratura del cerchio, suggeriscono alcuni: Sks aiuta i poveri concedendo microprestiti e, allo stesso tempo, fa profitti in borsa.

Forse non la pensano allo stesso modo i poveri che, sui crediti di Sks, devono pagare il 28%: “diciotto punti percentuali in più rispetto al costo con cui la società si finanzia sui mercati”, spiega Il Sole 24 Ore. Abbondantemente sopra la “zona rossa degli squali” individuata da Yunus.

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