Chieder scusa è ormai diventata, per i politici d’ogni colore, una vera e propria arte. O, se si preferisce, un indispensabile – ed a suo modo complesso – strumento di lavoro. E tuttavia pochi sono coloro che, in questi anni di pentimenti a catena, sono riusciti, come Joe L. Barton, a far uso di questo strumento in termini tanto perfettamente “circolari”. Ovvero: a chieder scusa per aver chiesto scusa. Sfondo tragico di questa  straordinaria impresa (un vero e proprio esempio di virtuosismo della scusa): l’inarrestabile disastro petrolifero che, esploso poco più di due mesi fa al largo delle coste della Lousiana, va distruggendo spiagge, paludi e profondità marine in una sempre più ampia fetta del Golfo del Messico.

Chi è, dunque, Joe L. Barton? Per che cosa ha chiesto scusa? E perché si è poi scusato d’essersi scusato? Semplicissima nella sua prima parte (quella delle scuse), la storia va facendosi assai più intricata – e molto meno convincente – nel suo secondo atto: quello, ancora inconcluso, delle scuse per le scuse, che a questo punto non si esclude possa essere seguito, in un ulteriore aggrovigliarsi della trama, da quello delle scuse per le scuse delle scuse. Ma cominciamo dall’inizio. Joe L. Barton non è propriamente un novellino della politica. È, al contrario, un congressista repubblicano di anni 61, venticinque dei quali trascorsi a Capitol Hill come Representative del più “petrolifero” Distretto – il sesto – d’uno dei più petroliferi Stati dell’Unione (il Texas). Insomma: quando si tratta di politica e di petrolio, Barton ha certamente dalla sua, come si usa dire, il privilegio degli anni e dell’esperienza. Al punto che, non avessero i repubblicani perso la maggioranza in entrambi i rami del Congresso nelle elezioni del novembre 2008, sarebbe certamente toccata a lui – per personali e “geografici” meriti  – la guida della Commissione Energia della House of Representatives. Ed è stato proprio in questa veste d’assai collaudato esperto in materia che, la settimana scorsa, prendendo la parola nel pieno della molto accalorata audizione del Chief Executive Officer della British Petroleum, Antony “Tony” Bryan Hayward, Barton s’è per la prima volta scusato. Non per qualcosa che aveva fatto o detto lui, ma per quello che il suo Paese, guidato da un presidente robespierranamente spietato, stava facendo a Hayward ed alla sua compagnia. “Sento di doverle delle scuse – ha detto – per quello che equivale ad una estorsione (“shakedown” è stato il termine inglese da lui usato n.d.r.) da 20 miliardi di dollari…”.

Venti miliardi di dollari era (ed è), ovviamente, la somma che – al termine d’un molto intenso negoziato con Barack Obama – la BP ha accettato di depositare in un fondo (la cui pratica gestione verrà presto affidata ad una commissione indipendente) destinato a rimborsare le popolazioni delle coste del Golfo devastate dalla fuoruscita di petrolio. Tony Hayward – che, a sua volta, con aria contrita, aveva fin lì consumato la seduta profondendosi in scuse di fronte a congressisti che facevano a gara nello sventolargli sotto il naso le più raccapriccianti immagini dell’apocalisse petrolifera dalla BP provocata – lo ascoltava incredulo, forse pensando ad uno scherzo di cattivo gusto. Ed ancor più increduli – quasi tramortiti, in effetti, dalle sue parole – lo ascoltavano tanto i deputati democratici, soverchiati da quell’inatteso regalo propagandistico, quanto i massimi dirigenti repubblicani della Camera dei Rappresentanti che, ben conoscendo la scarsa propensione di Barton verso qualsivoglia forma di humor, andavano misurando, molti prossimi ad una crisi di panico, le potenzialmente catastrofiche conseguenze d’una tanto malriposta misericordia.

Risultato: dopo una lunga e frenetica sequela di sdegnati rimbrotti, di precisazioni e distinguo, di molto ferme prese di distanza, di ancor più ferme condanne e di vere e proprie minacce, Barton ha infine, attraverso il suo ufficio stampa, rese pubbliche le sue scuse per le scuse. O meglio: le sue non-scuse per le non-scuse, visto che l’incidente era, a suo dire, stato provocato soltanto da parole che, da lui mal scelte, erano state poi erroneamente interpretate (“misconstructed”) dai soliti media. Insomma: a dispetto delle prime apparenze – per antonomasia ingannatrici – anche lui, Joe L. Barton, come la stragrande maggioranza degli americani e come tutti gli altri suoi colleghi repubblicani, altro non provava per la British Petroleum che un insanabile odio…

Davvero? E il termine “shakedown”, estorsione, usato per definire i 20 miliardi del fondo? Soltanto un equivoco, un momento d’annebbiamento lessicale, un tipico “lapsus calami”? In qualche misura sì, visto che proprio dal “calamus”, dalla penna di Tom Price, deputato della Georgia e capo d’uno dei più rinomati centri studi dei congressisti repubblicani  – il Republican Study Committee – era per la prima volta uscito, meno di 24 ore prima dell’audizione del perfido Hayward, quell’inequivocabile vocabolo; per l’occasione usato, anzi, in un ancor più inequivocabile contesto. In quel documento, infatti, il fondo veniva senza mezzi termini definito come il prodotto della “Chicago-style shakedown politics”, la politica dell’estorsione tipica di Chicago. Vale a dire: della medesima città dove tanto Al Capone quanto, in tempi più recenti, Barack Obama si sono fatti politicamente le ossa.

Evidenti erano, nel documento elaborato da Tom Price, due sovrapposti riflessi condizionati di tipica marca repubblicana. Quello, irresistibile, del “no” a qualunque proposta che venga dal Male assoluto (vale a dire: da Barack Obama); e quello, ancor più irresitibile, dell’ossequio nei confronti del “big business”. In particolare quando quel big business – ovviamente identificato con il Bene assoluto – si chiama petrolio. La vera colpa di Joe Barton – l’unica della quale dovesse davvero scusarsi – non è stata, in fondo,  che quella d’aver continuato a seguire, ignaro, i dettami d’una filosofia che il buon senso politico (da molti definito “opportunismo”) sconsigliava, date le circostanze, d’esporre con tanta brutalità in pubblico. O, più esattamente: quella di rivelare – con la goffa intempestività delle sue scuse – una verità che i repubblicani (e non solo i repubblicani) preferiscono di questi tempi nascondere dietro una molto affettata indignazione.

Joe L. Barton ha, in effetti, dentro la “casta” politica americana, molti più fratelli e molte più sorelle di quello che suo attuale stato d’ “intoccabile” lascia intravvedere. E non da tutti – come nel caso dell’ineffabile Tom Price e dell’intera dirigenza congressuale repubblicana – è stato pubblicamente sconfessato. Michelle Bachman, congressista del Minnesota ed eroina del “Tea Party” (una che si è messa in politica per volontà di Dio e che non esita a dichiarasi “hot for Jesus”, in calore per Gesù) ha pubblicamente definito il fondo di 20 miliardi, “una forma di redistribuzione della ricchezza” (leggi: socialismo satanico), confermando la sua molto cristiana solidarietà ai boss petroliferi oggi tanto villanamente maltrattati da Obama. Rand Paul, altro prodotto del Tea Party e recente trionfatore delle primarie repubblicane per la prossima corsa senatoriale del Kentucky, ha senza riserve definito “antiamericano” il piglio con cui il presidente ha messo BP alle corde. Ed altrettanto ha fatto quel Dick Armey che, negli anni ’90, guidò la House of Representatives in una perenne (e fallimentare) crociata contro la presidenza di Bill Clinton, senza mai del tutto abbandonare – come Newt Gingrich, suo inseparabile compagno d’armi – le sue ambizioni presidenziali.

Un fatto è comunque certo: se soltanto una piccola parte dei repubblicani – la più “pura” – sembra oggi disposta aseguire Barton lungo la strada delle scuse a Hayward (una strada che, peraltro, scusandosi per le scuse, lo stesso Barton non ha seguito fino in fondo), tutti o quasi concordano su un punto. La trivellazione delle profondità marine deve continuare a dispetto degli eventi. E questo tutti vanno (con discrezione,  ma con grande fermezza) ripetendo mentre, frementi di rabbia, mostrano piangendo alle telecamere foto di bianche spiagge imbrattate dalla marea nera e di pellicani miseramente impastati di petrolio ed ormai incapaci di levarsi in volo. Insomma: Tony Hayward è certo un demonio dal molto brittannico accento. Ma il petrolio continua ad essere, per l’America, una benedizione di Dio…

E qui viene la verità (il classico segreto di Pulcinella) che, con le sue pubbliche scuse, Joe Barton ha involontariamente rivelato. Molto prima di raggiungere le coste della Louisiana – anzi, molto prima che la Deep Horizon cominciasse a trivellare le profondità del Golfo – lo tsunami petrolifero già aveva inquinato quasi ogni anfratto, repubblicano o democratico, della politica americana. Come, del resto, fin troppo facile è appurare “following the money”, seguendo la lunga scia del denaro. Barton – che prima di darsi alla politica ha lavorato per un’impresa petrolifera (la Atlantic Richfield Oil and Gas Company) – ha dall’industria petrolifera ricevuto contributi che, secondo il Center for Responsive Politics, sfiorano (dal 1990 ad oggi) i 2 milioni di dollari. Ma non è certo la solitudine la più spiccata caratteristica del suo peccato. In tutti gli Stati nei quali l’industria petrolifera lavora, garantirsi i soldi del petrolio è, in effetti, una pre-condizione della vittoria. Mary L. Landrieu, senatrice democratica per la Louisiana, ha ricevuto dall’industria petrolifera (dal 1996) quasi un milione di dollari. Ed è oggi una delle più convinte sostenitrici della necessità di continuare la trivellazione in acque profonde…L’elenco è, prevedibilmente, lunghissimo. Tanto lungo da arrivare – non sorprendentemente – anche al primo responsabile dello “shakedown” ai danni della povera BP. Vale a dire: allo stesso Barack Obama, che, nel corso della sua trionfale campagna presidenziale, ha ricevuto in varia forma, proprio da BP, 77.000 dollari.

Di questo la politica americana dovrebbe scusarsi. E, probabilmente,dovrebbe anche scusarsi per non essersi scusata prima. Ma il gioco resta, per il momento, fermo alle scuse per le scuse dell’onorevole Joe Barton. La marea nera, intanto, continua ad avanzare. Nel Golfo e nella politica…

Articolo Precedente

Le parole sono pietre

next
Articolo Successivo

Con la mia torpedo blu

next