E’ un circolo vizioso: il governo taglia la spesa pubblica per rispettare il rapporto deficit/pil, cioè cerca di ridurre il deficit. Ma così facendo finisce per ridurre i soldi in tasca ai consumatori, e quindi la crescita del pil. Dunque serviranno altri interventi per ridurre il deficit. Lo ha esplicitato ieri il responsabile dell’Ufficio studi della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in un’audizione al Senato sulla manovra finanziaria: “A parità di tutte le altre condizioni nel biennio 2011-2012 la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del pil di poco più di mezzo punto percentuale attraverso una compressione dei consumi e degli investimenti”. La logica conseguenza, conclude Rossi, è che “potrebbero essere necessari ulteriori interventi qualora si presentasse uno scenario più sfavorevole”.

LA CRESCITA. Proviamo a fare due conti partendo dalle stime di crescita del governo. Secondo la Ruef, la relazione sulla finanza pubblica che è l’ultimo documento ufficiale sullo stato dell’economia, l’Italia dovrebbe crescere del 1,5 per cento nel 2011 e del 2 per cento nel 2012. Questo significa una crescita complessiva del 3,53 per cento nel biennio. Ma visto che la manovra rallenta l’economia, la crescita sarà più bassa di mezzo punto. E quindi, se ha ragione Bankitalia, ci sarà uno 0,3 per cento di deficit in più a fine 2012 (che stando alle stime molto ottimistiche del governo implicherebbe un deficit complessivo del tre per cento invece che del 2,7 per cento del pil). Conseguenza: se il governo vuole rispettare gli obiettivi di finanza pubblica concordati con Bruxelles, dovrà tagliare ancora la spesa. E forse di parecchio visto che dal lato delle entrate ci sono molte incertezze. Avverte sempre Rossi: “Le stime riguardanti gli effetti dell’azione di contrasto dell’evasione presentano molti elementi di incertezza”, cioè non è affatto detto che il gettito che deriverà dall’aumento dei poteri dei comuni nella riscossione e dell’Agenzia delle entrate sia quello previsto. Anche la Corte dei conti è d’accordo con Bankitalia: “L’impulso fornito dalla manovra alla crescita sarà, come primo impatto, di segno restrittivo”, ma non si sbilancia a calcolare di quanto. Il presidente Tullio Lazzaro, nell’audizione in Senato sulla manovra, ricorda poi che i tentativi di ridurre la spesa “negli anni passati non hanno dato i risultati attesi” e si sono rivelati spesso soltanto “slittamenti nel tempo dei pagamenti che hanno creato difficolta’ alle ditte fornitrici”.

LE PENSIONI. Anche per questo – oltre che per rispettare il divieto europeo di discriminare tra i sessi – che il consiglio di ministri ha approvato ieri l’aumento dell’età pensionabile delle donne impiegate nel settore pubblico da 60 a 65 anni. Secondo le prime stime, che ha diffuso ieri il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, l’effetto dell’aumento dell’età della pensione di vecchiaia per le statali sarà “di 1,45 miliardi di euro in dieci anni, da oggi al 2019”. Anche qui, però, si rischia l’effetto collaterale: se si alza l’età per le pensioni di vecchiaia, chi ha abbastanza contributi per accedere alla pensione di anzianità (contributiva) può decidere di lasciare il lavoro prima del previsto. E quindi l’effetto netto sugli istituti di previdenza potrebbe essere negativo. I soldi risparmiati sulle pensioni – se risparmi ci saranno – andranno in un fondo per sostenere la famiglia, dice il governo, e non a ridurre il debito.

Il ministro Renato Brunetta è poi riuscito a far approvare al consiglio dei ministri il tetto a 311mila euro per gli stipendi di alcuni manager pubblici. Ma da due anni il governo annuncia questa misura che poi ha sempre finito per prevedere talmente tante eccezioni da risultare svuotata. Anche in questa versione i dirigenti coinvolti sarebbero meno di 300, nessuno dei quali di primo piano.

Da il Fatto Quotidiano dell’11 giugno

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