Perché la leadership si salvi, deve vincere almeno sei regioni. Bersani frena sull’inciucio. Crisi al sud

Incrocio Pier Luigi Bersani al Quirinale, il giorno del brindisi di Natale. La scena è interessante. In un capannello, girando su se stessi, per caso si ritrovano faccia a faccia il segretario del Pd e la segretaria dell’Ugl, Renata Polverini. Siccome Bersani è un galantuomo, fra tante mani che si tendono per congratularsi con la Polverini per la candidatura (nel centrodestra),c’è anche la sua: "Ti faccio tutti i miei auguri". Allora faccio una battuta: “No, il leader del Pd non può…”. Bersani trasecola: "E perché?". Rosy Bindi, solo un passo indietro allarga le braccia e sorride: "Bè, certo! Gli auguri non glieli puoi mica fare". La Polverini ride anche lei: "Certo che può, anzi deve!"."La strada" di Pier Luigi. Allora Bersani mi allunga un’occhiataccia di rimprovero. "Lo so che voi de Il Fatto fate i criticoni…". Poi allunga un braccio con la mano a scure, per indicare una linea immaginaria davanti a sé: "Tutti dicono, fanno, criticano, ma io vado dritto, dritto per la mia strada, e porterò tutta la coalizione alla vittoria. Ho sempre fatto così, nella mia vita, lo rifarò anche stavolta”.
Allora gli chiedo della Puglia. E lui: "Vedrete, vedrete… risolveremo tutto". Sembra un pasticcio: "E chi l’ha detto? Aspettate a dire". Del Lazio intanto, dove la Polverini è in pista ufficialmente da una settimana non faccio in tempo a chiedergli,perché il segretario del Pd si dilegua.
Lazio, Puglia e Campania sono i tre pasticci di Natale sotto l’albero di via del Nazareno. La partita è difficile: se in primavera la coalizione vincesse meno di sei regioni (parte da undici) sarebbe una disfatta. Quelle considerate certe sono: Umbria, Marche (accordo con l’Udc), Toscana ed Emilia Romagna (il "granducato della Quercia"). Il Piemonte con la Bresso (anche lei era stata insidiata dall’Udc) è solo un passo indietro, a rischio c’è la Liguria. Il vero disastro inizia da Roma in giù, aggravato dall’ennesima guerra "veltrodalemiana" e dal "fattore I": l’inciucio.

E il dopo Marrazzo? La vicenda della “regione capitale”. È in qualche modo emblematica. Il centrosinistra, travolto dal caso Marrazzo, non trova candidati alternativi. Rosy Bindi declina. Veltroni pure. Nessun dirigente nazionale, a partire dal leader, si prende la responsabilità di dire una parola sulla vicenda. La maggioranza prova a non far dimettere il governatore azzoppato, ma l’operazione è insostenibile. Il centrodestra individua la sua candidata.
I vertici nazionali tacciono. Si guarda a Nicola Zingaretti, unico possibile "salvatore della patria”. Il presidente della provincia pone tre condizioni che non sono accettate. L’area dalemiana, con in testa Claudio Mancini, lo strattona: "Fa’ quel che dice il partito". Bersani non interviene né pubblicamente né riservatamente: Zingaretti si sfila. Inizia a circolare (non dispiacerebbe allo stesso presidente della provincia) il nome di Mario Marazziti. Lui ventila la disponibilità. Nessuno la raccoglie. Ora Marazziti si sfila pure lui: "Continuerò a lavorare nella società civile". È una vicenda esemplare, che si replica quasi ovunque: lo stesso vuoto di iniziativa il Pd lo realizza in Campania, dove Pier Ferdinando Casini è arrivato a ipotizzare la candidatura di Antonio D’Amato (l’ex ala destra della Confindustria) presentandola come la bandiera di un "fronte anticamorra".
Molto abile, come al solito. Senonché il centrodestra oscilla fra il sottosegretario Nicola Cosentino e il confindustriale Lettieri. Così la proposta di fatto è rivolta al Pd. E perché dovrebbe accettare il partito di Bersani? Semplice: perché è impegnato in una faida tra gli uomini di Antonio Bassolino (che sognerebbero la candidatura del suo assessore ai trasporti Ennio Cascetta) e la componente che fa capo al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. Insomma, anche qui l’iniziativa politica è sotto lo zero.

Della Puglia, poi, potete leggere qui sotto l’incredibile ricostruzione di Enrico Fierro. Ma il riassunto degli eventi che hanno portato alla catastrofe è semplice: il Pd locale aveva già votato il suo supporto alla ricandidatura di Nichi Vendola, ma sono bastate due missioni di Massimo D’Alema e l’ambizione di Michele Emiliano (ineleggibile a meno di dimissioni da Sindaco di Bari) per spaccare la coalizione e costringerla intorno al contorcimento di una legge ad personam per permettere allo stesso Emiliano di correre senza dimettersi. In Calabria Agazio Loiero era pronto a correre per le primarie, ma Udc e Italia dei valori, per motivi diversi, non sosterrebbero la sua candidatura. Stesso problema che si verifica in Puglia, per Vendola. E altra defezione annunciata dell’Idv – in Campania – dove DI Pietro dice: "Non sosterremo un candidato del Pd".

"Alleanze variabili". Insomma, in tutto il sud dove il centrosinistra aveva vinto e governava, il sistema dei veti incrociati ha fatto saltare le coalizioni e i leader senza che dal quartiere generale arrivassero proposte risolutive e indicazioni autorevoli. L’unico che ha le idee chiare, in questo momento, sembra Pier Ferdinando Casini: "Siamo per le alleanze variabili", dice il segretario dell’Udc rievocando il lessico moroteo. La linea di Casini è chiara: il risultato ideale sarebbe andare a destra dove l’Udc è determinante per far vincere la destra e viceversa. E qui si arriva alla guerra paradossale che si è riaccesa fra dalemiani e veltroniani. D’Alema sostiene la necessità di allearsi a tutti i costi con Casini a livello locale (e considera la Puglia una prova generale) e di approdare a un appeasement con Berlusconi, fino a tessere l’elogio dell’Inciucio. I veltroniani sono contrari. Enrico Letta aveva aperto i giochi (“Berlusconi ha diritto a difendersi dal processo), il segretario aveva negato l’adesione al No B. day e difeso l’intesa siciliana con Lombardo e Dell’Utri. Ma ora – vedendo i sondaggi a picco – frena: "La gente mi dice: ‘Attento Bersani, qui ti imbrogliano!’". Problema. Se la linea adesso è questa, chi lo dice al lider maximo?

Da Il Fatto Quotidiano del 24 dicembre

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