Il titolo del libro del giornalista Edoardo Montolli dice tutto: "Il caso Genchi, un uomo in balia dello stato". Esperto di informatica, siciliano doc, all’inizio degli anni ’90 Genchi è il primo a portare i computer nelle procure. Collabora con Falcone e Borsellino, indaga sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Poi lavora con De Magistris su why Not, e il pozzo nero dei fondi europei destinati al meridione.

Sa molto, "troppo", dice lui. E da servitore dello Stato, diventa un mostro da sbattere in prima pagina. Il 24 gennaio 2009, il premier annuncia il più grave scandalo della Repubblica. Destra e sinistra, a braccetto, accusano Genchi di tenere in scacco i telefoni di mezza Italia. "350 mila utenze", urla il premier. "Il caso Genchi è un caso rilevante per il libertà e la democrazia", gli fa eco il presidente del Copasir Francesco Rutelli. "Un caso da Corte Marziale" rincara Maurizio Gasparri. La Repubblica italiana al guinzaglio di uno sconosciuto tecnico informatico, che stringe tra le mani chissà quali dossier. Peccato che Genchi non abbia mai intercettato nessuno. Il suo compito è verificare l’attendibilità delle intercettazioni disposte dalla magistratura. Perciò controlla i tabulati telefonici, da dove partono le telefonate, incrocia i dati e archivia tutto. Se le informazioni di Genchi fossero arrivate a Milano nel ’92 mentre scoppiava Tangentopoli, spiega Di Pietro, "oggi avremmo un altro paese, un’altra politica, un’altra imprenditoria". Ma ora il tecnico siciliano inizia a vuotare il sacco. Per lungo tempo ha incassato in silenzio. "Ho concesso qualche metro di vantaggio ai miei accusatori", dice lui. "Ora sono qua, trenta chili in meno, tanta voglia di combattere e andare avanti". E passa al contrattacco. Iniziando da Spatuzza e la nascita di Forza Italia.

a cura di Paolo Dimalio

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