Otto anni fa a oggi moriva Indro Montanelli. Nel 1994 era stato il primo, da posizioni conservatrici e dunque non prevenute, a intuire la minaccia che il suo ex editore Silvio Berlusconi entrato in politica rappresentava per la democrazia. Il 7 giugno 1994 il Cavaliere, premier da appena un mese, attaccò la Rai dei “professori” (la più lontana mai vista dalla politica) illustrando la sua personalissima concezione del pluralismo:

“È certamente anomalo che in uno Stato democratico esista un servizio pubblico televisivo contro la maggioranza che ha espresso il governo del Paese. La Rai è faziosa, contro il governo che la gente ha voluto. La gente è d’accordo con me, questa Rai non le piace: me l’ha detto un sondaggio. Il governo se ne occuperà tra breve”.

L’indomani, sulla Voce, Montanelli scrisse che quel delirio dimostrava

“una allarmante confusione concettuale fra Stato e governo… Alla ‘gente’ la prospettiva di sei reti televisive… che, accantonati dibattiti e risse, intonino l’osanna al nuovo regime e al suo ‘timoniere’, probabilmente piace. Lo dimostra l’indifferenza con cui il cosiddetto uomo della strada ha accolto le dichiarazioni del timoniere… Io avevo i pantaloni corti quando Matteotti fu assassinato. Ma ricordo i discorsi che la gente intorno a me faceva. Dopo sei mesi di campagne giornalistiche al calor bianco… in cui nessuno era più in grado di distinguere la verità dalle menzogne, la gente accolse con sollievo il discorso del 3 gennaio 1925 con cui Mussolini imbavagliava la stampa e annunziava la dittatura… Berlusconi non è Mussolini… Ma è proprio questo clima di facilismo, di esenzione non dai problemi (di questi ce ne sono), ma da quelle angosce esistenziali che ci rendono ricettivi ai grandi princìpi, che può spianare a Berlusconi la strada verso una ‘democrazia del balcone’. Non quello di Palazzo Venezia, che gli andrebbe troppo largo. Ma quello della Casa Rosada, che consentiva a un Perón di arringare la folla… Ce la farà perché la gente è con lui, non con noi. E quando la gente si mette dietro qualcuno, gli uomini delle ‘comunicazioni di massa’ finiscono per mettersi dietro la gente. Queste cose le abbiamo già viste all’alba della nostra vita. Mai ci saremmo aspettati di rivederle al tramonto. Ma sembra che così debba essere”.

A rileggerlo oggi, quell’articolo profetico, mi rimbomba nella testa il ricordo delle “campagne giornalistiche al calor bianco… in cui nessuno era più in grado di distinguere la verità dalle menzogne” che precedettero l’avvento del regime mussoliniano. E’ il ritratto dei giorni nostri. Per settimane ci siamo sentiti ripetere che Patrizia D’Addario raccontava frottole. “Non è mai andata a casa del premier” (Niccolò Ghedini). “Non esistono registrazioni della D’Addario, a meno che qualcuno se le inventi” (ancora Ghedini). “Non sapevo che fosse una escort altrimenti non l’avrei frequentata né tantomeno l’avrei portata a cena dal presidente” (Giampaolo Tarantini). “Il presidente non sapeva che io rimborsassi le ragazze” (ancora Tarantini). “Non ho alcun ricordo di questa donna, ne ignoravo il nome e non avevo in mente il viso” (Silvio Berlusconi). “Purtroppo abbiamo sbagliato l’ospite” (ancora Berlusconi). “Non ho mai pagato una donna, naturalmente, non ho mai capito che soddisfazione ci sia, se non c’è il piacere della conquista” (ancora Berlusconi). “Qualcuno ha dato un mandato molto preciso e benissimo retribuito a questa signora D’Addario… un progetto eversivo” (ancora Berlusconi).

Ora, dalle conversazioni registrate dalla stessa D’Addario e pubblicate dal bravissimo Antonio Massari sul sito dell’Espresso, si scopre che hanno mentito tutti: Berlusconi, Ghedini, Tarantini, giornali e turiferari al seguito. Solo la D’Addario ha sempre detto la verità, senza prendere un euro per farlo. L’unico che l’ha “retribuita” è Tarantini, col quale Berlusconi si sentiva anche dieci o venti volte al giorno. Ma avrebbe dovuto pagarla anche il premier, secondo i patti. “Mille te li ho già dati – le dice Tarantini – poi se rimani con lui ti fa il regalo solo lui”. Ma Berlusconi se ne dimentica, promettendo però un interessamento per un’operazione immobiliare cara alla signora, e lei se ne lamenta con Giampi: “Niente busta però… Tu mi avevi detto che c’era una busta. Mi ha fatto un regalino, non so, una tartarughina…”.

Di fronte allo scandalo di quest’ennesima vagonata di menzogne di Stato, che occupa le pagine di tutti i giornali e i siti del mondo intero, il capo dello Stato non trova di meglio che attaccare quei pochi che fanno opposizione e auspicare “tregue” e “riforme condivise” (con chi? Con Papi? Con l’Utilizzatore Finale? Con il Puttaniere di Stato e i suoi ruffiani?). Al Pappone pensa di cavarsela dicendo “non sono un santo” (come se il problema fosse questo). I tg parlano d’altro (memorabile, l’altra sera, il mega-servizio del Tg1 di Menzognini su un ghiacciaio dell’Antartide). Pigi Battista, sul Corriere, farfuglia di “denunce pubbliche di comportamenti privati” e di “incursioni sputtanatorie”, dimenticando forse che il premier è un bugiardo matricolato e la signora D’Addario era candidata alle elezioni comunali di Bari nel Popolo delle libertà soltanto un mese fa. Poveracci con la voce bianca o col caschetto mèchato alla Mastro Geppetto calunniano chi racconta i fatti sul Giornale di Papi. Mavalà Ghedini, sbugiardato platealmente dalle registrazioni, continua ad arrampicarsi sugli specchi, sostenendo contemporaneamente che i nastri sono falsi (“materiale del tutto inverosimile e frutto di invenzione”) e che chi li ha pubblicati ha violato il segreto investigativo (dunque sono veri, se lui stesso ipotizza che siano in possesso della Procura di Bari). Avvocati un tempo “democratici” e “garantisti”, come il rifondarolo Giuliano Pisapia, si alleano con Mavalà invocando sul Giornale indagini per “ricettazione” contro il giornalista che li ha pubblicati. Forse a questi principi del foro sfugge che le registrazioni non sono opera della magistratura o della polizia giudiziaria: le ha fatte, lecitamente, Patrizia d’Addario, e se le ha passate a qualche giornalista per dimostrare la propria attendibilità prima che venissero segretate, nessuno ha violato alcun segreto né alcuna legge. Il Giornale della ditta si scatena a demolire Patrizia con ogni sorta di insulto, senz’accorgersi che così peggiora la posizione dell’”utilizzatore finale”, il Cavalier Padrone, che la ricevette in casa sua per due volte, ci trascorse una notte “nel lettone di Putin”, le regalò due gioielli, promise di aiutarla in una pratica immobiliare, ci fece colazione insieme anzichè fare gli auguri al neoeletto presidente americano Obama, le raccontò dei suoi impegni istituzionali e internazionali, la richiamò al telefono e le diede appuntamento ad altri incontri per “farti leccare da una mia amica”, mentre il partito a Bari la candidava nella lista del ministro Raffaele Fitto, “La Puglia prima di tutto”. La poveretta si era perfino bevuta la promessa del Cavalier Bugiardoni:

D’Addario: E poi mi ha fatto una promessa…

Tarantini: Cioè?

D’Addario: Che… va beh te lo posso dire, tanto tu sei la guardia di tutto, mi ha detto che mi mandava gente sul cantiere. L’ha detto lui, quindi ci devo credere?

Tarantini: Sì, e va beh se lo dice lui…

Povera donna: “L’ha detto lui, quindi ci devo credere”. Infatti s’è visto com’è finita la storia. Come con il Contratto con gli italiani. Come con l’impegno in Sardegna a tenere il G8 alla Maddalena. Come con la promessa di ricostruire l’Aquila in men che non si dica. Ora, almeno, c’è un cittadino in più – Patrizia – che non si fida delle promesse del Re Sòla. E’ già qualcosa. Gli altri, un giorno o l’altro, seguiranno. Forse.

Indro, quanto ci manchi.

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