Io c’ero. E non nel recinto riservato alla stampa arredato con ombrelloni e divanetti stile villaggio Valtur (e appropriatamente chiamato Media village). C’ero di là. Dove avvenivano le cose. Dove i giornalisti, attentamente pascolati dagli agenti di sicurezza, non potevano andare.

In tre giorni di cose ne ho viste. Piccoli episodi ai margini di un G8 che dall’interno è sembrato un po’ meno perfetto, ma comunque riuscito alla grande. Dei contenuti, non so dire. Eccetto, forse, per quelli che la forma a volte tradisce a dispetto delle intenzioni e delle parole ufficiali.

Al G8 dell’Aquila io facevo parte di quell’esercito di tecnici e operai al lavoro venti ore al giorno, quando non ventiquattro. Bertolaso, capo della protezione civile e commissario delegato al G8, prima dell’inizio del summit ci ha convocati tutti nell’auditorium della caserma. Per ringraziarci e spronarci a un ultimo sforzo. Ma anche per prepararci. Ci ha informato che molti degli ospiti in arrivo erano «gente arrogante», soffermandosi molto sulla questione dell’«arroganza dei potenti» senza lesinare ironia sulle richieste pervenute da diplomatici, consoli e delegati.

Mi è capitato di ripensare alle sue parole quando, il giorno dopo, l’ho visto ordinare a un uomo della protezione civile di scendere dall’auto elettrica che stava guidando (dentro la caserma ci si muoveva solo con mezzi a emissioni zero) e requisirgliela senza addurre la minima spiegazione. Il tipo era rimasto impietrito lì, a piedi nel viale, come se non capisse cosa fosse avvenuto. «Cos’è successo?» gli faccio avvicinandomi. «M’ha fregato la macchina», mi fa. «Chi?». «Bertolaso», e dicendolo si volta a guardarmi come in cerca di una conferma. «Era lui, no?». Poi si mette a ridere e riprende a guardare la vettura che si allontana, scuotendo la testa. «Dentro c’era pure la mia cena. Due panini e un succo di frutta».

Ci ho ripensato anche il giorno conclusivo, quando tutti i leader presenti al G8 hanno partecipato all’inaugurazione della nuova targa dell’ex piazza d’armi, ora piazza 6 aprile, in memoria delle vittime del terremoto. Ho osservato tutto da una terrazza. La piazza era circondata da un cordone di militari per tenere a bada i giornalisti, liberati dalla gabbia per l’occasione. Era l’una, e il sole picchiava sul selciato come un martello sull’incudine. Al centro della piazza, alcuni uomini della protezione civile. I finanzieri facevano il cordone anche intorno a loro, e ricordo d’aver pensato che la cosa sembrava un po’ buffa. I grandi della Terra si sono fatti attendere più di mezzora. Vedevo i soldati barcollare. Tutti sotto a un sole cattivo. Poi finalmente ecco arrivare i leader, che cominciano a sistemarsi uno accanto all’altro, a ridosso dell’edificio della main conference. Tutti rigorosamente predisposti all’ombra dall’organizzazione. Loro, sotto al sole cattivo no, giammai.

Ma al discorso sull’arroganza dei potenti ci ho pensato soprattutto a summit ormai finito, quando i capi di governo se ne stavano partendo alla spicciolata. Me ne andavo per i fatti miei costeggiando una scala esterna del palazzo delle delegazioni. Dalla scala scendeva un gruppetto di persone a cui in quel momento non prestavo la minima attenzione. Finché dal gruppetto non mi giunge una voce. «Please Sir, please!». Alzo lo sguardo e noto quest’uomo in completo grigio e auricolare. Mi sorride. «Please, Sir, may I ask you to stay?». In quel momento mi accorgo che continuando a camminare io e il gruppetto ci saremmo incrociati. Allora mi fermo. Il tipo comincia a ringraziarmi. «Thank you Sir, thank you very much!». Anche un secondo uomo, a quel punto, si volta verso di me, mi sorride, annuisce e mi ringrazia. E così fanno il terzo, il quarto e il quinto. «Thank you», «Thanks», perfino un «Gratsie», il tutto guarnito con cenni del capo e sorrisi. Una volta passati, si sono voltati per ringraziarmi di nuovo. Lo hanno fatto talmente tante volte che la scena, a un italiano come me, non poteva non apparire ridicola. Soprattutto considerando chi erano, quelli lì. Il primo, il terzo, il quarto e il quinto non li conoscevo. Erano per me solo energumeni in completo grigio. Ma il secondo sì, l’avevo riconosciuto. Era Gordon Brown, primo ministro di Sua Maestà la Regina. Per motivi di sicurezza, lui e i suoi bodyguard erano stati costretti a chiedermi di fermarmi un istante, e ne sembravano sinceramente dispiaciuti. Io ero sconvolto. Un’esperienza completamente nuova. E con tutto lo stupore di cui sono capace, annuendo come chi nella solitudine della sua intimità è investito d’un tratto da un’illuminazione inattesa, mi sono detto: vuoi vedere che è così che si comportano i potenti in un paese libero? vuoi vedere che è questa, la democrazia?

The Insider

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