Piatto ricco - Un business da 1,25 miliardi

Mense scolastiche, scritta dalle imprese la relazione illustrativa della legge che vieta il panino da casa

Intere parti copiate da un discorso del presidente della “Confindustria” del settore. La refezione nella scuola dell’obbligo genera un volume d’affari di 1,25 miliardi di euro

12 Agosto 2017

Un disegno di legge scritto col copia incolla. È quello che detta le nuove regole sulla ristorazione collettiva: per capirci ospedali, mense aziendali o scolastiche. Queste ultime, peraltro, oggetto di una serie di sentenze e ricorsi sull’ormai famigerato “panino da casa”. Problema: la relazione illustrativa del testo è quasi tutta farina del sacco delle imprese del settore, un po’ come capitò con Confindustria e il Jobs Act. La fonte originale di questa parte del disegno di legge può essere infatti rintracciata in un discorso del 12 giugno 2015 tenuto da Carlo Scarsciotti. Chi è costui? si chiederà il lettore. Presidente di Angem (Aziende della ristorazione collettiva e servizi vari), è amministratore unico di Oricon – l’osservatorio che riunisce sette grandi aziende della ristorazione (Camst, Cir, Sodexo, ecc.) che coprono il 54% del fatturato scolastico – e pure vicepresidente di Food Service Europe (che fa lobby a livello Ue).

Il disegno di legge di cui vi parliamo viene depositato il 4 agosto 2015, un mese e mezzo dopo il discorso di Scarsciotti. La firma, ovviamente, non è la sua: lo hanno presentato senatori e senatrici del Pd. Prima firmataria è l’emiliana Leana Pignedoli, seguono, tra le altre, l’attuale ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, Monica Cirinnà e l’ex ministra Josefa Idem.

La relazione illustrativa – che descrive contenuto e obiettivi della legge – è una sorta di riassunto, quando non una vera e propria scopiazzatura, dell’intervento del presidente di Angem: si va da una lamentazione sulla crisi del settore, “schiacciato (…) dalla riduzione costante delle risorse pubbliche, ritardi dei pagamenti della Pubblica amministrazione”, all’identificazione del pasto come “importante veicolo, soprattutto nella scuola, educativo relazionale attraverso l’educazione al gusto” fino al problema della “disomogeneità di approccio” degli enti locali alle linee guida del ministero della Salute.

Intervento di Carlo Scarsciotti a un convegno, 12 giugno 2015

Giusto a metà luglio, il disegno di legge è tornato alla ribalta quando la commissione Agricoltura del Senato – di cui Pignedoli è vicepresidente – ha approvato un emendamento che di fatto vieta definitivamente il “panino da casa” facendo diventare “i servizi di ristorazione scolastica parte integrante delle attività educative”. Lo ha chiarito la stessa ministra Fedeli definendo il pasto in mensa “momento didattico e di formazione” il 3 luglio in un convegno a Bologna sulla refezione scolastica (“Nutrire insieme il futuro”) organizzato da Legacoop Bologna e Camst con patrocinio della regione Emilia-Romagna (dove Camst ha sede e ha vinto, nel 2016, l’appalto da 53 milioni per le scuole pubbliche).

L’interesse delle imprese sul tema, d’altronde, è ovvio: la refezione nella scuola dell’obbligo genera un volume d’affari calcolato in 1,25 miliardi di euro grazie a 380 milioni di pasti all’anno per due milioni e mezzo di studenti (dati Anci). E il costo della mensa? Varia da regione a regione passando da un minimo di 500 euro l’anno in Calabria ai mille dell’Emilia-Romagna calcolati su un reddito familiare di 44 mila euro annui (fonte Cittadinanzattiva) per arrivare a Torino, dove chi non gode di agevolazioni paga 1.400 euro. Costi che un report di Save the Children definisce “spesso onerosi”, anche perché molti Comuni non prevedono sgravi fiscali o esenzioni particolari. Ci sono stati casi in cui bimbi con una sola rata mensa non pagata venivano lasciati a digiuno, in un caso escludendo anche i fratelli seppure in regola, perché il debito era considerato “familiare”. O bimbi non ammessi a scuola, come accaduto ad Ardea (Roma) nel 2015, che ne aveva “banditi” 300 le cui famiglie non potevano permettersi di anticipare l’acquisto dei pasti.

Relazione illustrativa del ddl sulla ristorazione collettiva

Contro l’obbligo di avvalersi del servizio di mensa nel giugno del 2016 si era espressa la Corte d’appello di Torino con una sentenza che aveva fatto scalpore. “La Corte ha detto chiaramente che subordinare il diritto all’istruzione all’iscrizione a servizi a pagamento come la mensa viola l’articolo 34 della Costituzione”, spiega l’avvocato Giorgio Vecchione, che aveva presentato ricorso per conto di 58 famiglie torinesi: “Dopo quella sentenza, e dopo 15 ricorsi d’urgenza presentati a Torino, quasi seimila famiglie della città hanno cancellato i figli dalla refezione mentre altri tribunali, sparsi per l’Italia, hanno accolto ricorsi analoghi. L’unico che pur riconoscendo il diritto, non l’ha tutelato, è il tribunale di Napoli”.

Se non bastasse, peraltro, c’è il decreto ministeriale del 1983 che considera la mensa un servizio a “domanda individuale”, continua l’avvocato, e pure una “circolare del Miur del 2017 che invita a considerare il pasto da casa alla stregua dei pasti speciali, quindi ammissibile”. Poi c’è quello che hanno scoperto i Nas dei carabinieri: “Nel solo anno scolastico 2015/16 sono state chiuse per gravi irregolarità ben 37 strutture e sequestrate 4 tonnellate di cibo. Spesso nelle mense si servono cibi precotti e riscaldati al momento, o ricevuti in enormi blocchi surgelati da dividere a colpi di mestolo o mannaia. Pasti industriali, insomma”. Certo, c’è sempre la possibilità di cancellare i propri figli dal tempo pieno, ma poi chi se ne occupa mentre i genitori lavorano? “E perché condizionare questa scelta all’adesione obbligatoria a un servizio facoltativo?”, aggiunge Vecchione.

A Castelnuovo di Porto, nel Lazio, o la mensa o niente tempo pieno nella scuola “Guido Pitocco”: portarsi il pasto da casa – racconta Fabio Marricchi, presidente del consiglio d’istituto – “è vietato da un’apposita circolare” (cui si oppongono oltre 50 famiglie). In sostanza, “la scuola ha chiamato la Asl, la quale ha richiesto a chi porta cibo da casa le etichette tipo Scia sanitaria e Haccp: insomma non c’è alternativa alla mensa. Mi chiedo: che differenza c’è tra il pranzo da casa e la merenda? Perché la merenda non è vietata…”.

Il problema, insomma, resta e il ddl non lo risolverà. Tra le ultime modifiche, poi, c’è la soppressione dell’articolo che permetteva ai Comuni di valutare le proposte delle aziende in base all’unico requisito della qualità: si sceglierà, con un occhio alla qualità, l’offerta più vantaggiosa.

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