Ong, il tifo non serve a risolvere i problemi

8 Agosto 2017

State con Minniti o con le Ong? Con gli scafisti o con la nostra polizia? Eppure le questioni in gioco sono più complicate delle semplificazioni. Come si scopre indagando omissioni e travisamenti. Nel primo caso cominciando da un retroterra storico. Appena conquistata Kabul (1996), i Taliban intimarono alle Ong occidentali di licenziare le donne. Piuttosto che piegarsi le Ong, una ventina tra le quali alcuni prestigiose e integerrime come Oxfam e Save the children, preferirono abbandonare l’Afghanistan, sospettavano che se avessero accettato sarebbero state costrette a sostituire le donne licenziate con personale maschile suggerito dai Taliban, cioè spie. Medici senza frontiere fu l’eccezione: accettò. A quel tempo una società petrolifera texana, la Unocal, aveva convinto i Taliban a firmare un accordo che autorizzava la costruzione del tratto afghano di un gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan, operazione da 4,5 miliardi di dollari che ovviamente richiedeva consenso e finanziamenti internazionali, innanzitutto Usa: e questi erano per gran parte legati all’immagine che i barbuti guerrieri di mullah Omar avrebbero offerto al mondo.

Pochi mesi dopo l’esodo delle altre Ong dall’Afghanistan, Msf incassò contributi dalla Unocal per programmi umanitari in Asia centrale. Sbagliarono Oxfam e Save the children? Certamente no. Sbagliò Msf? Non ho sufficienti elementi per giudicare. Quel che qui conta è che, in determinate circostanze, le Ong umanitarie devono affrontare dilemmi complessi. Qual è la priorità che giustifica compromessi? Qual è il limite oltre al quale accettare compromessi diventa una resa etica, un tradimento degli ideali che motivano un determinato programma umanitario? E quanto è lecito sacrificare all’immagine, alla necessità di reperire finanziamenti? Save the children si convinse che un compromesso con i Taliban fosse impossibile, un compromesso con il Viminale tollerabile, per quanto sgradito. Msf ha fatto la scelta inversa. Eppure tra le imposizioni di Minniti e le imposizioni di mullah Omar una differenza c’è, e notevole.

Se l’ostinazione di Msf appare incongrua, l’ostinazione del Viminale non lo è di meno. Quali sono le priorità che ufficialmente motivano il governo italiano? Salvare vite e combattere il traffico di esseri umani. Ma i comportamenti non sono conseguenti. Se Italia ed Europa fossero angustiate dal destino dei 150mila migranti intrappolati in Libia, spesso in condizioni disumane, cercherebbero di offrire a quegli sventurati una qualche via di fuga, un canale umanitario, una tutela. Come minimo, avendo resuscitato la Guardia costiera libica potremmo pretendere che i migranti intercettati in mare non finiscano in prigioni-lager; e che loro e altri siano messi nelle condizioni di richiedere asilo (che per valutarli “non esistano le condizioni di sicurezza” è la risposta tipica delle burocrazie internazionali, ed è pigra nel tempo di Skype). Quanto alla lotta agli scafisti, tra 007 italiani in Libia e testimonianze di migranti alla magistratura dovremmo avere da tempo un quadro esatto della tratta (organigrammi, capataz nei 50 lager, flussi finanziari), informazioni che potremmo proporre alla Corte penale internazionale e all’Onu perché commini sanzioni individuali. Invece adottiamo il modello retorico della patria in guerra (da cui l’intimazione alle Ong: o con noi o contro di noi!) ma non spariamo un colpo contro il nemico. Più che lotta agli scafisti sembra lotta ai migranti.

Se la sorte dei 150mila in Libia dovrebbe essere la priorità di qualsiasi etica, è altrettanto indubbio che i flussi migratori dall’Africa vadano fermati, non fosse altro perché altrimenti l’Italia diventerebbe ricattabile da qualsiasi al-Sisi. Istruttivo, sul tema, il viaggio compiuto di recente in Egitto dai parlamentari Gasparri (Forza Italia), Santangelo (M5S) e Latorre (Pd). Si legge nel resoconto scritto da Gasparri e pubblicato da Tempi, settimanale vicino a Cl: “Al-Sisi e altri esponenti ci hanno ricordato con chiarezza che l’Egitto ha quasi 100 milioni di abitanti, potrebbero partire a milioni diretti verso l’Europa, eppure ciò non avviene perché l’Egitto tiene sotto controllo la situazione”. L’eroica conclusione di Gasparri, a quanto pare condivisa dagli altri due parlamentari: occorre rimandare al più presto l’ambasciatore d’Italia al Cairo.

Al netto del trasporto per il capo dei torturatori egiziani (“Grande!” si entusiasma Gasparri), la proposta non è da scartare. Purché non ci si dimentichi che gli al-Sisi sono il problema, non la soluzione. Ma per capirlo occorre affrontare la grande crisi araba, una somma di crisi, con una visione complessiva che al momento il governo non dimostra (anche se in Libia comincia ad abbozzare una politica estera). Con una maggioranza e un’opposizione ormai omologate nell’incapacità di produrre altro che slogan ridicoli (‘Aiutiamoli a casa loro!’) dovremmo abbandonare ogni speranza. Eppure c’è ancora un grumo di Stato che resiste allo sfacelo della politica.

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