La morte di Michele non è la tragedia di un individuo solo

9 Febbraio 2017

Perdonatemi, mamma e papà, se potete. Ho resistito finché ho potuto. Michele”. Se si scrivesse con la penna l’inchiostro di questa rubrica sarebbe sbavato. Ma al Messaggero Veneto la mamma di Michele ha detto “niente cose lacrimose” e visto che è lei a sopportare l’indicibile dolore di aver perso suo figlio, il minimo che si possa fare è darle ascolto. Michele aveva trent’anni, s’è ammazzato perché non poteva più passare la vita “a combattere solo per sopravvivere”, “cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo”. Michele era stremato. “Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro inutili, stufo di sprecare sentimenti…”. Michele ci ha provato: “Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte”. Michele era arrabbiato e, questa furia s’è accorto che rischiava di rivolgerla contro altri: “Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno”. Michele era disperato: “Le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente”, “il futuro sarà un disastro”.

E qui sbagliava. Lo è già il presente, come il recente passato. La sua lettera ricorda quella di Dimitris Chistoulas, un ex farmacista che si suicidò in piazza Syntagma ad Atene nel 2012, perché ogni sua “possibilità di sopravvivenza era azzerata”: “Dipendevo da una modesta pensione che mi sono pagato in 35 anni di lavoro senza alcun sostegno statale. Non vedo altra soluzione che una fine onorevole prima di iniziare a rovistare nei cassonetti in cerca di cibo”. Dimitris aveva 77 anni, Michele solo 30: la vita davanti a sé. La sua storia è quella di tanti nostri amici, compagni di scuola, fratelli, sorelle. Ragazzi che ci provano ma non ce la fanno, spesso nonostante lauree e master.

A un certo punto può succedere che il lavoro di cercare lavoro diventi troppo faticoso: il no non si può accettare in eterno, la speranza muore, la frustrazione vince. Davanti a questo, deve essere chiaro, non c’è spazio per i giudizi: nessuno è un superuomo, la fragilità deve avere cittadinanza altrimenti l’esistenza si trasforma in una prova di resistenza, in uno sport estremo. Ieri Stefano Feltri ha scritto, giustamente, che un tempo la qualità di una democrazia si misurava sul tipo di vita che conducevano gli ultimi. “Poi la retorica della meritocrazia ha stabilito che invece la temperatura della democrazia andava misurata alle eccellenze, le élite”.

La tragedia della disoccupazione chiama in causa la politica che fatica a dare risposte e spesso è inadeguata. Il discorso sul lavoro è complesso e purtroppo siamo abituati a vederlo ridotto a cifre su slide o tweet. Poi c’è chi la realtà la racconta: ieri i maggiori quotidiani non avevano in prima la storia di Michele, che è stata trattata come una storia di cronaca, una tragedia individuale. C’è forse la paura degli emuli, ma in qualche articolo si legge pure il tentativo di negare la natura stessa di quella lettera e di quel suicidio (“lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo farmene carico”): Michele ha pensato la sua morte come una denuncia del modello sociale che, all’ingrosso, chiamano neoliberista. Si può non essere d’accordo, ovviamente, o ritenere inaccettabile il gesto, ma il dibattito – davvero impressionante per partecipazione – che avviene sul web ci dice una cosa: la sottovalutazione dei media non distoglie i cittadini. Oltre a non capire per chi scriviamo, rischiamo per leggerezza di non capire nemmeno quale finta realtà contribuiamo a raccontare.

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