L’intervista

“Jihad, entro nelle carceri alla ricerca dei cattivi maestri”

Youssef Sbai - L’ex vicepresidente delle Comunità islamiche tiene corsi di formazione per individuare i detenuti radicalizzati dietro le sbarre

Di Asmae Dachan
10 Gennaio 2017

Contro il terrorismo dei jihadisti, l’islam entra nelle scuole di polizia penitenziaria. Il ministero della Giustizia ha nominato Youssef Sbai, 56 anni, marocchino, ex vicepresidente nazionale dell’Ucoii, Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, docente di fede musulmana. Lo scopo è fornire agli agenti strumenti per imparare a riconoscere tra i detenuti atteggiamenti di radicalizzazione, proselitismo alla violenza e cultura dell’odio.

Come ha accolto questa nomina giunta in un momento in cui si parla molto del pericolo della radicalizzazione nelle carceri?
In realtà non si tratta di un incarico nuovo, ma di un progetto iniziato già da un anno, nel gennaio 2016. Come docente e come credente musulmano ho accolto questa nomina con un profondo senso di responsabilità. Sono già stato chiamato da diversi direttori di scuole di polizia penitenziaria per tenere un corso di formazione e aggiornamento per il personale carcerario sui fenomeni del radicalismo, della violenza e del proselitismo nelle carceri italiane. Il mio compito è quello di presentare l’islam e fornire ai corsisti strumenti utili per comprendere e interpretare gli atteggiamenti dei detenuti.

Quali sono gli istituti coinvolti nel progetto?
Il corso si è già svolto nella scuola di polizia penitenziaria ‘Giovanni Falcone’ a Roma, e ora è attivo nella scuola di Cairo Montenotte, nel Savonese. Interesserà altri istituti. La particolarità è che il docente, in questo caso il sottoscritto, è allo stesso tempo uno studioso di islam e un musulmano praticante. Questo è il vero elemento di novità, perché oltre alla materia accademica, si offre quindi una testimonianza di fede vissuta in modo diretto. Il corso è rivolto anche ad altre figure professionali come educatori e psicologi.

Come avviene la formazione?
Ci sono tre diversi approcci. Il primo riguarda la pratica religiosa in sé, e dà ai corsisti un quadro di quali sono e come si svolgono. Il secondo riguarda aspetti culturali dei territori di provenienza dei detenuti musulmani. Il mio ruolo è di spiegare al personale quali sono gli aspetti che riguardano usi, costumi e tradizioni dei Paesi d’origine e quali, invece, sono le questioni dottrinali. La terza dimensione riguarda il confronto con gli operatori.

Ha anche modo di incontrare i detenuti?
Da anni faccio volontariato in diversi carceri. Incontro detenuti di fede musulmana che fanno esplicita domanda di un colloquio con un ministro di culto islamico.

Riesce a individuare i segni di una possibile radicalizzazione?
La questione del radicalismo difficilmente si può cogliere e percepire durante brevi colloqui. La radicalizzazione è un processo lungo, un fenomeno complesso che per essere scoperto richiede un’osservazione più vicina e prolungata. Servirebbe un’intervista approfondita col detenuto per riscontrare eventuali indicatori di un atteggiamento estremista.

Quale approccio religioso riscontra nella popolazione carceraria musulmana?
Molti dei carcerati che ho incontrato hanno un livello di istruzione, anche religiosa, molto basso, e di conseguenza, anche il loro atteggiamento spirituale riflette il cosiddetto islam popolare, quello diffuso nelle rispettive società di provenienza. Spesso hanno atteggiamenti religiosamente sbagliati, distorti e nel caso in cui dovessero incontrare un cattivo maestro, è facile che questo li porti alla devianza, a commettere azioni e adottare comportamenti che di islamico non hanno nulla e ne sono, semmai, una stigmatizzazione.

Rapporti più frequenti fra istituzioni islamiche e Stato italiano potrebbero agevolare il riconoscimento di ciò che è religione, da ciò che non lo è?
È possibile, a condizione che i musulmani siano all’altezza di affrontare questa responsabilità, mettendo a disposizione risorse umane, come professori, maestri e imam qualificati.

In questo momento l’allerta per eventuali attacchi è molto alta.
Il rischio c’è, e lo dicono i rappresentanti di diverse istituzioni italiane. Lo confermano anche i comportamenti di ex detenuti che hanno compiuto atti terroristici in Europa. Non possiamo, quindi, negare che esista un pericolo. La paura non deve farci cambiare la nostra quotidianità, l’importante è non abbassare la guardia.

di Asmae Dachan

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