Pd, il fiatone di Matteo: primarie di corsa e senza uno slogan

26 Febbraio 2017

Il tempo e il messaggio: sono questi i due veri problemi di Matteo Renzi nella corsa verso le primarie. L’ex premier parte in grande vantaggio, ma teme che il terreno gli scivoli a poco a poco sotto i piedi. Come insegna Sun Tzu nell’Arte della guerra, ha scelto il momento e il luogo della battaglia. Il popolo del Pd andrà alle urne il 30 aprile. Tutti i tentativi della minoranza per spostare in estate la data dello scontro sono stati respinti. A giugno ci sono le elezioni amministrative e forse i referendum sui voucher e lavoro. La probabilità di inanellare un’altra serie di sconfitte è alta. I Dem non sembrano in grado di presentare una lista a Palermo, il Comune più importante trai 1004 chiamati al voto. La situazione è complicata anche a Genova e negli altri capoluoghi di regione e di provincia.

Correre come segretario uscente di un partito che ha preso una nuova scoppola per Renzi sarebbe stato un disastro. Così le primarie si tengono in primavera e il giorno delle politiche si allontana. Ma i rischi restano molti. Se il leader Pd non raggiunge subito il 50 per cento delle preferenze il nuovo segretario lo sceglierà, come prevede lo statuto, il congresso. Dove tutto può accadere. Anche perché già ora la torbida storia Consip minaccia di produrre effetti imprevedibili sulla già ammaccata leadership dell’ex rottamatore. Lo scoop di Marco Lillo che ha spinto il suo sfidante Michele Emiliano a mostrare gli sms con cui il ministro Luca Lotti sponsorizzava Carlo Russo, indagato con il padre di Matteo, Tiziano Renzi, per traffico di influenze, comincia ad avere delle conseguenze.

Emiliano è stato chiamato a testimoniare e per tv e giornali diventa sempre più complicato tenere nascosta la vicenda. Ovviamente le eventuali colpe dei genitori non ricadono sui figli, ma al di là dell’esito dell’inchiesta penale, emerge sempre più chiaramente come Tiziano abbia tentato di utilizzare la propria posizione privilegiata di padre dell’allora premier per oscure operazioni lobbistiche. Poi ci sono le accuse, mosse dai pm proprio al renziano Lotti: prima tra tutte la fuga di notizie mirata a far saltare l’indagine su Russo e Renzi senjor. Il quadro insomma non profuma di bucato. Il sistema affaristico e di potere che sta emergendo appare sempre meno compatibile con l’idea alta della politica che decine di migliaia di iscritti del Pd e milioni di suoi elettori dicono di professare. Questo, in termini di consenso, può costare.

Ovvio, Matteo Renzi controlla ancora la macchina dem. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, quando si è visto chiedere se davvero, come scrivevano i giornali, avesse garantito all’ex premier l’appoggio alle primarie in cambio di un seggio alla Camera per il figlio, non ha smentito. Ha preferito non rispondere. Per questo Emiliano e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dati per ora bassissimi nei sondaggi, hanno ancora molte carte da giocare. Entrambi, a differenza di Renzi, hanno un messaggio semplice su cui incardinare le loro primarie. Il primo sostiene di voler rappresentare il Pd che lotta per la legalità e combatte le mafie. Il secondo dice: io sono la sinistra, quella che va a Scampia o a Mirafiori e non in California. Il segretario uscente invece di parole d’ordine non ne trova. Non può più parlare di rottamazione, di giovani o di speranza. Durante il viaggio in Usa ci ha provato con la Green Economy. Ma tutti si sono subito ricordati di quando invitava, insieme a Napolitano, gli italiani a disertare il referendum sulle trivelle. Così ora ha paura.

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