Il Re degli Usa

Elvis non è (mai) morto. È solo atterrato su Marte

Nella notte di Ferragosto di 40 anni fa scompariva la prima, grande, leggenda del rock ’n’ roll. Gli americani non si sono mai rassegnati alla sua assenza e ogni anno migliaia di persone giurano di vederlo in vita

14 Agosto 2017

No, non è morto. È semplicemente tornato nella sua casa astrale. Gli ufologi hanno esultato, quando all’inizio di quest’anno la sonda Rover ha scattato una foto della superficie di Marte in cui si nota un “uomo” ritratto di profilo, con tanto di ciuffo a banana, abbigliato nel vestito di scena bianco caro a Elvis.

Un’allucinazione? Una suggestione spaziale? Sull’origine aliena di Presley in tanti metterebbero la mano sul fuoco: quando l’8 gennaio 1935 mamma Gladys dava alla luce il “figlio eletto” – il gemello Jesse Garon morì poche ore dopo la nascita – sul cielo di Tupelo il papà Vernon notò una “misteriosa luce blu”. Elvis, il predestinato sceso sulla Terra. Il giovane camionista che un giorno a Memphis, alla metà degli anni Cinquanta, aveva fatto una deviazione dal percorso abituale e si era fermato davanti agli studi Sun del signor Phillips: voleva registrare una lacca amatoriale per farne dono a Gladys, roba da pochi dollari, ma Phillips notò subito il talento fuori dal comune del ragazzo.

In quel momento cominciava l’irresistibile ascesa al trono di Elvis. L’America aveva bisogno di un Re. Anche perché molto presto il Paese avrebbe dovuto elaborare il parricidio – l’assassinio del Presidente – e non si può essere due volte orfani. Il Re marziano non può abbandonarci. Per questo, prima che sul Pianeta Rosso, lo hanno avvistato ovunque sulla Terra. Già subito dopo quel sontuoso funerale post-ferragostano del 1977, quando un uomo che si era registrato come Jon Burrows saliva su un aereo per Buenos Aires: e Burrows era l’alias che Elvis sceglieva per gli spostamenti in incognito.

Nei quarant’anni dalla scomparsa lo hanno individuato in buona salute decine di migliaia di volte: persino come controfigura nel film Home Alone. Più spesso, Presley si mischia alla gente comune. Lo beccano nei supermercati, location più che probabili date le sue malsane attitudini alimentari. Nel 1988 decine di abitanti di Kalamazoo, nel Michigan, giurarono di averlo visto mentre addentava golosamente il suo panino in un Burger King. A Ottawa è stata fondata una “Sighting Society” che tiene conto delle numerose segnalazioni che hanno visto il Re a spasso nella città canadese, magari per andare a curiosare nella “Elvis Lives Lane”, la via dedicata alla sua seconda vita.

Qualcuno lo ha riconosciuto in un venditore di magliette a un concerto degli Oasis in Inghilterra. O nel cameriere di un ristorante a Stoccolma. E poi c’è quel tizio misterioso che nel 2016 è stato notato aggirarsi dentro Graceland, la residenza del sovrano del rock’n’roll. Non si trattava di una visita furtiva: questo corpulento, anziano signore con barba e capelli bianchi era presente pure alle celebrazioni per il compleanno di Elvis, nel gennaio scorso. Sì, gli somiglia in modo impressionante: ma dalla “casa regnante” fanno sapere che è solo un giardiniere, magari un lontano parente del caro estinto.

Del resto, perché non aggrapparsi alla speranza? L’America pullula di suoi sosia, ma uno di loro, per una suprema beffa shakespeariana, potrebbe essere lui in persona. La storia ufficiale racconta che Elvis non riusciva a prendere sonno, la notte tra il 15 e il 16 agosto 1977. Coinvolse qualcuno in una partita a racchettoni, poi si mise al piano per canticchiare Blue Eyes Crying in the Rain. C’era in agenda un concerto a Portland, di lì a poche ore. Ma niente, non riusciva a chiudere occhio. Alle 9:30 del mattino si avventurò verso il bagno con il libro “Una ricerca scientifica sul volto di Gesù”, di Frank Adams. Il Re del rock voleva saperne di più su quello dei Giudei. Sull’enigma della Sindone. Sul Sepolcro vuoto.

Ginger Alden, ultima compagna del vorace predatore sessuale Elvis, lo vede in piedi e scherza: “Non addormentarti, là dentro!”. Presley risponde: “Non lo farò!”. Lo ritrovano quando è quasi ora di pranzo, soffocato nel vomito davanti al cesso. Se è una morte, è la meno regale possibile. Ma se avesse inscenato una sorta di “Resurrezione” da Nazareno rock? In quel periodo l’Fbi stava indagando su una truffa da miliardi di dollari nella quale era coinvolta Cosa Nostra: Elvis e papà Vernon ne erano rimasti vittime, e i Federali volevano testimoniassero proprio in quei giorni. Avevano studiato uno piano di protezione per il cantante e per la sua famiglia. Di certo, Presley aveva capito che qualcuno lo stava fregando: aveva da poco licenziato parecchi collaboratori, la cosiddetta “Memphis Mafia” legata a doppio filo al suo manager, l’avido Colonnello Parker. Forse era meglio sparire. Per sempre.

Nessuno, fra gli estranei, aveva potuto vederlo nella bara. Ma un traditore si trova sempre: nel suo caso è il cugino Bobby Mann, che con una minuscola Arry Flex da spia scatta la foto che il 6 settembre 1977 finisce sulla copertina del National Enquirer. Uno scoop pagato 18 mila dollari, ma che frutta alla pubblicazione scandalistica 6 milioni e mezzo di copie. Tutti i fans sottolineano che il naso del defunto è troppo piccolo per essere quello del Re: chi c’è dentro quel sarcofago dorato? Forse una statua di cera? E perché questa cacchio di bara pesa ben quattro quintali? Troppi, pure per un corpo arrivato, nelle ultime stagioni, ai 158 chili della Grande Obesità.

No, Elvis non è morto. È qui con tutte le sue contraddizioni. L’America lo aveva adorato incondizionatamente dopo che nel 1956 i suoi movimenti pelvici al Milton Berle Show nel mezzo di Hound Dog erano stati accolti come una minaccia erotica per le teenager, costringendo i cameramen dei programmi successivi a inquadrarlo al di sopra del bacino.

Surclassò Sinatra – che lo odiava – in un duetto tv del 1960, appena tornato dalla naja. Da spettatore, sparava al televisore quando non gradiva la trasmissione. Una volta per poco non centrò – scherzava, sostenne – anche la sua fidanzata Linda Thompson.

Elvis: il Re pistolero, tossico e perverso che qualche giorno prima di Natale 1970 andò dal Presidente perché voleva diventare agente speciale dell’Fbi. La sua missione, disse a Nixon, era combattere i comunisti, i capelloni, i drogati, e soprattutto i Beatles, che gli avevano sottratto il trono del rock per trasferirlo in Inghilterra. E lui, Presley, era un patriota.

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