L’acronimo in città - “Arrivi Tardi A Casa”

Atac Roma, un secolo di debiti, indagini e autobus che ritardano

Il grosso delle uscite: mutui e dipendenti, molti dei quali politici o sindacalisti (ma paga solo la cubista di Alemanno)

29 Luglio 2017

Da quasi 110 anni Atac, oltre a trasportare romani e turisti, attira le loro ire. Un vecchio adagio popolare stravolge l’acronimo in “arrivi tardi a casa”, alle risate provvede naturalmente una battuta di Carlo Verdone che lo trasforma in “Associazione Teologica Amici Cristo”. La realtà dei fatti racconta di una municipalizzata del trasporto (il Campidoglio è azionista al 100%) da anni in sofferenza, tra un debito di 1,3 miliardi, un modello aziendale elefantiaco (quasi 12mila dipendenti) e un servizio non all’altezza di una capitale europea.

Fondata nel 1909 come Azienda Tramviaria Municipale su iniziativa di uno dei sindaci più illuminati della Capitale, Ernesto Nathan, l’azienda assume il suo nome attuale nel 1944. Gli anziani ricordano una rete efficiente di tram, 140 chilometri prima delle Olimpiadi del 1960 (oggi appena 31), mentre i giovani sono cresciuti sotto le pensiline gialle in attesa di bus spesso in ritardo.

Dopo Tangentopoli ,che vede Atac al centro di una presunta mazzetta da 32 miliardi di lire assieme all’Atm di Milano, la società è in ginocchio: il debito sfiora gli 800 miliardi di lire. La prima giunta di centrosinistra di Francesco Rutelli, sotto la regia accorta di Walter Tocci, chiama alla giuda dell’azienda Cesare Vaciago dalle Ferrovie, che vara un piano lacrime e sangue: 5mila esuberi nel 1994 sfruttando le norme sui prepensionamenti e aumento del costo del biglietto. Il piano sembra funzionare. Nel 2000 poi arriva lo spacchettamento dell’azienda: nascono Trambus che si occupa del servizio di superficie e Met.Ro. delle linee metropolitane, allora solo due. La prospettiva è quella di mantenere Atac pubblica a gestire la pianificazione dei servizi per poi mettere a bando le corse, ma l’applicazione pratica diventa ben presto viatico per la triplicazione di Cda e dirigenti. Nel 2000, complice il Giubileo, c’è il primo affidamento ad un privato con le linee periferiche che passano a Tevere Tpl (oggi Roma Tpl): l’esperimento però non regala buoni frutti visto che la società è costantemente in perdita e in ritardo sui pagamenti.

Dieci anni più tardi, a gennaio 2010, col centrodestra di Gianni Alemanno in Campidoglio si torna indietro: Atac ingloba nuovamente le due società con annessi debiti. Ma invece di snellire la fusione partorisce un’azienda con lo stesso numero di dipendenti e una proliferazione di dirigenti che, venendo da tre società diverse, mantengono qualifiche e compensi analoghi. Non solo: per complicare le cose la pianificazione degli itinerari e la stesura dei nuovi progetti passa a Roma Servizi per la Mobilità.

Fin qui le storture del modello aziendale, con la governance non va affatto meglio. Solo nei cinque anni di Alemanno cambiano altrettanti amministratori delegati, a dimostrazione della difficoltà di gestire una società tanto grande e male organizzata. Tra loro spiccano figure trasversali come Massimo Tabacchiera, erede di una storica ditta produttrice di edicole, la Siderlamina, che passa con disinvoltura dalla guida dell’Ama (la partecipata dei rifiuti) con Walter Veltroni a quella di Atac con Gianni Alemanno. Percorso simile a quello di Gioacchino Gabbuti, che guida l’azienda dal 2005 al 2009 col centrosinistra, salvo poi andare alla controllata Atac Patrimonio col centrodestra.

Il manager è stato rinviato a giudizio a dicembre scorso con l’accusa di essersi appropriato, assieme ad altri due dirigenti, di un milione di euro tramite contratti di consulenza fasulli in favore di una società a loro riconducibile. Nel frattempo i tre ex depositi che la divisione Patrimonio deve alienare per fare cassa (possono diventare appartamenti, uffici, servizi o centralità commerciali) giacciono nell’incuria.

Negli anni di Alemanno in Campidoglio, Atac fa rima con Parentopoli: ad aprile scorso sono partite le prime lettere di licenziamento, una trentina, per i dipendenti assunti in modo “illecito”. Un mese prima la Procura di Roma ha condannato quattro manager, tra cui l’ex ad Adalberto Bertucci, per assunzioni compiute “per mere logiche clientelari e in violazione di legge, senza alcuna valutazione dei requisiti minimi professionali”. Solo nel 2009 alla casella nuove assunzioni l’organigramma aziendale segna 845 persone. Tra loro spiccano una cubista divenuta un’amministrativa (poi licenziata), parenti di sindacalisti e di esponenti politici. Nutrito anche il manipolo di consiglieri ed ex passati nelle fila aziendali: tra loro i dem Daniele Ozzimo e Massimiliano Valeriani.

L’ultimo bilancio aziendale, al 31 dicembre 2015, parla di un valore della produzione da 1 miliardo l’anno, di cui circa 530 milioni servono per le buste paga. Un’azienda, insomma, che spende più per gli stipendi che per il servizio erogato.

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