Il dossier

“Agrodolce”, archiviato Giovanni Minoli: breve storia di un mistero televisivo

Il gip di Palermo accoglie la richiesta del pm sull’inchiesta nata dalle denunce del produttore Josi. Per quanto riguarda il reato di frode nelle pubbliche forniture "il termine di prescrizione risulta da tempo decorso”

Di Valeria Pacelli e Carlo Tecce
9 Maggio 2017

Agrodolce era la risposta siciliana alla napoletana Un posto al sole, una lunga serie televisiva con maestranze locali, investimenti pubblici, le insegne di Viale Mazzini, gli studi a Termini Imerese, i finanziamenti europei della Regione Sicilia (10,5 milioni di euro in automatico, 2 legati allo sviluppo del progetto). Un discreto successo fino al 2009 per la prima stagione sui canali Rai. Fu definito un romanzo popolare. Il responsabile era Giovanni Minoli, all’epoca direttore di Rai Educational. All’improvviso, Agrodolce uscì per sempre dai palinsesti e la società di produzione Einsten di Luca Josi – che era florida e valutata 31 milioni di euro – è fallita. Com’è andata davvero non lo sapremo in tribunale. Perché Wilma Angela Mazzara, gip di Palermo, ha stabilito l’inutilità di un processo e ha archiviato Minoli, dopo un’analoga pronuncia del collega di Roma. Le due inchieste erano partite dalle denunce di Josi. Mazzara ha accolto la richiesta del pm Enrico Bologna.

Minoli ha subìto accuse molto gravi, a lungo intercettato, poi pedinato e perquisito. La Finanza lo indaga per conto dei pm Gaetano Paci e Sergio De Montis sulle ipotesi di reato di falso ideologico, frode nelle pubbliche forniture ed estorsione ai danni di Josi. Poi i due pm vengono trasferiti, Paci a Reggio Calabria e De Montis alla Direzionale nazionale antimafia, mentre il colonnello Fabio Ranieri, capo del nucleo di polizia tributaria di Palermo, fa carriera a Roma.

Nel 2013, la Finanza suggerisce ai magistrati l’arresto di Minoli per evitare che inquini le prove o fugga all’estero. Il pm Bologna, che ha ereditato il fascicolo, lette le carte, agisce in maniera opposta: non rileva il dolo nelle attività di Minoli e di Ruggero Miti (altro indagato). Ora la giudice Mazzara conferma la sua tesi: “Non è provato che l’operato sia stato caratterizzato dal dolo, dovendosi ritenere, piuttosto, che i medesimi abbiano agito nell’interesse dell’attuazione del progetto e siano stati avulsi da qualsiasi finalità di illecita appropriazione di fondi pubblici”. “Se da un lato – si legge ancora nel decreto di archiviazione – le indagini hanno evidenziato una attività di direzione del progetto da parte del Miti e soprattutto del Minoli, sicuramente caratterizzata da scarse capacità manageriali, dall’altro non hanno consentito l’emergere di condotte appropriative (…) neppure a livello indiziario”.

E poi c’è la prescrizione: “Infine si osserva che, in considerazione del momento consumativo del reato di frode nelle pubbliche forniture (…), il termine di prescrizione risulta da tempo decorso”. Per la Guardia di Finanza, invece, il quadro era diverso: “Dall’analisi del carteggio è emersa la volontà di Rai Fiction, nella persona di Minoli, di rappresentare falsamente alla Regione Sicilia, al ministero per lo Sviluppo economico e al ministero per i Beni culturali: l’esecuzione di corsi di formazione in realtà mai eseguiti; la realizzazione da parte di Rai del Centro di produzione televisivo di Termini Imerese, di fatto realizzato sia sotto l’aspetto progettuale sia sotto quello economico-finanziario dalla Med Studios spa di Josi”. Questi elementi erano fondamentali per ottenere le risorse pubbliche.

Quando la Regione ha preteso le garanzie di Viale Mazzini, secondo le ipotesi degli inquirenti poi cadute, la squadra di Minoli ha cercato di convincere Einstein a cedere i “meriti” per la realizzazione degli studi di Termini Imerese. Gli obiettivi, si evidenziava nella fase di indagine, erano essenziali per lo sblocco dei fondi e per le ambizioni personali: “Grazie all’ottenimento dell’ingente finanziamento pubblico, Minoli ha ottenuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa dalla Rai, della durata triennale, per un compenso di 1,8 milioni di euro”. Nella denuncia del produttore si faceva riferimento, anche, all’assunzione di Renée Cammarata “per imposizione di Minoli”. Per la giudice “la spiegazione del ruolo della Cammarata induce logicamente a escludere la supefluità della sua assunzione e imposizione”. Agli atti dell’indagine, al contrario, si faceva notare che Cammarata era già dipendente Rai e il contratto di Einstein da 78.000 euro le garantiva un reddito complessivo di 460.000 euro: “Nell’ambito della cerchia dei soggetti legati a Minoli, assume particolare rilievo la signora Cammarata, la quale, grazie alle pressioni esercitate da Minoli, ha ottenuto rilevanti benefici economici”.

Oltre al primo episodio sulla Cammarata, il produttore ne raccontava un secondo: la “costrizione che sarebbe stata esercitata dagli indagati in occasione delle trattative con cui era stata individuata quale location per le riprese il Castello di Trabia”, attorno a cui ruotavano sospetti interessi criminali, a cui Josi non si piegò. Per il gip fu, invece, un fatto puramente operativo: “Motivi tecnici di inidoneità dei locali” e alcune “perplessità del Presidente della Commissione Antimafia” indussero a sciogliere il contratto con una penale. Anche in questo caso, per il gip, non ci fu alcuna pressione. Agrodolce non c’è più, la Einstein nemmeno. Ma era tutto regolare (o prescritto).

di Valeria Pacelli e Carlo Tecce

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