Grecia, l’Inferno dei viventi

di Martina Castigliani. Elaborazione e grafica Fabio Amato

In Grecia c’è la guerra. Ce l’hanno portata i siriani, gli afghani, gli iraniani, ce l’ha portata la troika, Bruxelles, Alexis Tsipras. Ce l’hanno portata gli uomini. Le città sono fortini di resistenza: centri di normalità fanno ombra a strade di periferie abbandonate dove si lotta per l’aria e per il pane. Se alla biforcazione di un qualsiasi incrocio prendi la direzione che porta al mare o alle montagne, lontano dalle luci abitate, trovi i campi dei migranti. Che sia il porto di Skaramangas, 45 chilometri da Atene, o l’ex ospedale psichiatrico di Petra sul Monte Olimpo nel Nord del Paese, ogni anfratto è buono per nascondere la vergogna di esseri umani strappati alle loro case e ora diventati animali.

La crisi dei migranti ha travolto la Grecia quando la Grecia era travolta da se stessa: dall’economia che arranca, da un governo passato dall’essere l’ultima speranza al grande traditore, da privatizzazioni continue che fanno sentire come se venisse a mancare la terra sotto i piedi. Nel 2015 un milione di esseri umani ha attraversato il Mediterraneo per cercare una via di fuga in Europa. Secondo i dati dell’agenzia Onu per i rifugiati (UNHCR), nel 2016 sono 173mila e 450 le persone che hanno preso il mare partendo dalla Turchia e hanno raggiunto i porti di Chios, Lesbo, Ios o Atene. Sognavano l’Europa della democrazia e dei diritti, hanno trovato accampamenti dispersi nel nulla, frontiere chiuse e burocrazia infinita. Hanno trovato fame e paura.

La crisi dei migranti ha travolto la Grecia quando la Grecia era travolta da se stessa

Dopo l’accordo Ue-Ankara del 20 marzo 2016, sulla base del quale tutti i migranti in arrivo sono respinti se la loro richiesta d’asilo non viene accettata, sono oltre 60mila le persone bloccate sul territorio greco. I centri destinati all’accoglienza sono circa un centinaio: sono distese di tende, container nei casi più fortunati, o accampamenti dentro fabbriche abbandonate. Il governo provvede per il livello minimo di cibo e la sicurezza, il resto è nelle mani di volontari che troppo spesso sono soli a lottare contro i mulini a vento. “Il mondo si è già abituato all’emergenza”, raccontano loro, “e ha dimenticato che qui si continua ad avere bisogno: mancano uomini a vigilare, manca da mangiare e l’assistenza medica non sempre è garantita. Le violenze sono all’ordine del giorno”. Le estati e gli inverni si rincorrono tutti uguali da ormai due anni e ogni volta il governo si fa trovare impreparato: strutture temporanee e accampamenti non riescono a garantire condizioni di vita dignitose di fronte al caldo torrido di agosto o al gelo di dicembre.

Da una parte sovraffollamento, burocrazia e frontiere, dall’altra le mani di chi non riesce a restare a guardare. Di chi come Rita esce dal lavoro e va a distribuire scatoloni di aiuti o di chi come Cristal ha creato una ong da 5mila volontari in una notte. Da mamma ha lanciato una raccolta fondi su internet per raccogliere marsupi che servono a trasportare i bimbi. In 24 ore il conto è esploso e dopo due giorni aveva camion di donazioni da tutto il mondo.

In Grecia lo chiamano “filotimo” ed è il senso di ospitalità, lo spirito di chi apre le porte di casa sua e divide quello che ha con te. Come la farmacia di Kapnikos, a Katerini: nata per fornire farmaci ai greci senza assicurazione sanitaria, si è presa cura anche dei 2mila profughi accampati fuori dalla città. Nessuno ha pensato che avrebbero potuto fare delle distinzioni. “La salute è il diritto di ogni europeo, di ogni persona che arriva sulla mia terra”, dice Elias che da quelle parti tutti considerano come leader. Più giù, nella Capitale, la rivoluzione provano a farla dentro un ex hotel a tre stelle: si chiama City Plaza e accoglie 400 migranti. “Siamo abusivi, ma siamo un’alternativa: la convivenza è l’unica strada per non far vivere le persone come animali nei campi”, dicono. La vita è scandita dai turni in cucina e per le pulizie. Nessuno sa fino a quando durerà.

Il tempo è l’angoscia: scorre sempre uguale trascinandosi via i giorni mentre esseri umani fissano soffitti posticci sperando di ricordarsi il senso. Kayhan, musicista iraniano di 27 anni, dice che non potrà più comporre, che il suo cuore è di ghiaccio e che ha la testa troppo pesante per pensare alle note. Rami si presenta come doppio rifugiato, palestinese in Siria e siriano in Grecia. A ucciderlo ogni mattina è la noia e per questo gira con due libri sempre nel borsello: il dizionario arabo-greco e Le città invisibili di Italo Calvino. “Me l’ha consigliato un amico per sopravvivere all’inferno”, dice. Alan invece passa le giornate a insegnare inglese ai piccoli del campo di Ritsona: “Perché qualcuno di loro ce la farà. Non tutti, ma qualcuno sì”. Lui è malato dalla nascita e il viaggio lo ha fatto in groppa a un cavallo mentre la madre trasportava a braccio la sua sedia a rotelle. “Ma quella è un’altra storia”.

La storia di adesso parla di una lotta per esistere, per resistere, per non essere dimenticati. Inizia con i vestiti spaiati e le magliette fuori misura e ha la sua battaglia più difficile ogni volta che Beiruss esce dalla cucina e dice che per oggi il cibo è finito. Quando Rima è arrivata con le sue due figlie piccole e il marito sull’isola di Lesbo non poteva credere di essere ancora viva. Fradicia e sporca ha fermato una signora per chiedere una maglia asciutta: “Tornatene al tuo Paese”, le ha risposto quella donna. “Go back. We don’t want you”. Lei ha pensato alla sua casa sotto le bombe e ha capito che non era salva. Non ancora.

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