“Abbiamo 12mila miliziani dell’Isis nelle nostre carceri. Ma questo non è un affare che riguarda solo gli Stati Uniti. L’America è parte della coalizione internazionale ed è il Paese che si è preso il maggior numero di responsabilità”. Quando pronuncia queste parole ai microfoni de Ilfattoquotidiano.it, Mustafa Bali, portavoce delle milizie che hanno liberato il nord della Siria dai terroristi dello Stato Islamico, non sa che a Washington si è già deciso di ritirare gli ultimi mille soldati impegnati sul territorio e lasciare campo libero al governo turco che, come già successo ad Afrin, punta a mettere le mani sulle aree curde oltre il confine. Ad Ain Issa, nel quartier generale del media team delle Unità di Protezione Popolare curde (Ypg/Ypj), la situazione è tranquilla: i militari bevono il tè e fumano quantità industriali di sigarette insieme ai giornalisti. Se sei italiano, ti chiedono notizie di Massimo D’Alema, considerato un idolo per aver ospitato a Roma, nel 1998, Abdullah Öcalan, che qui è semplicemente Apo, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan.

Se qualche giorno fa provavi a chiedere loro qualche informazione sui colloqui con gli Stati Uniti, se Washington avesse veramente intenzione di abbandonare il nord del Paese, si limitano a rispondere: “Nessuna novità, vedremo”. Oggi, però, dopo l’annuncio della Casa Bianca che elimina l’ultimo deterrente contro la “imminente” invasione di Ankara che nella serata di ieri secondo i media locali (ma la notizia non ha trovato conferme ufficiali) ha cominciato a bombardare le postazioni militari curde, nel Rojava si parla una lingua diversa: la decisione viene considerata una “pugnalata alle spalle” inferta da Donald Trump. Una sola promessa: il popolo curdo “si difenderà in ogni modo possibile”. E ricordano: “Attenzione, perché lo Stato Islamico non è stato ancora sconfitto ed è più forte di qualche mese fa”.

Le Ypg/Ypj hanno il territorio in pieno controllo, in quella striscia che va dall’Eufrate e dalla città di Manbij a ovest fino al confine con l’Iraq a est. Lungo le dritte strade semidesertiche che attraversano la regione settentrionale della Siria, con il panorama monotono interrotto solo da qualche villaggio e dalle pompe per l’estrazione del petrolio, i checkpoint armati si susseguono con regolarità. Uomini e donne con in braccio il Kalashnikov, uno sguardo dentro al mezzo: “Rojbaş”, buongiorno. Se sei curdo o viaggi insieme a dei curdi, passi senza quasi fermarti. Se sei arabo, i controlli sono più attenti. Soprattutto quando ci si avvicina alle città che le Forze Democratiche Siriane (Sdf), pagando un prezzo altissimo in termini di giovani vite, hanno difeso o liberato dal 2015. Kobane, Manbij, Al-Qamishli, Ain Issa, Tall Abyad e, scendendo verso sud, anche Raqqa, ex capitale di Daesh fuori dai confini del Rojava ma controllata dalle milizie curde dopo la sua liberazione, a fine 2017. Intorno a queste città e a molte altre il cordone di sicurezza si infittisce per la paura di nuove infiltrazioni terroristiche.

Infiltrazioni che ci sono già e, soprattutto la notte, rigettano la popolazione nel terrore conosciuto sotto il dominio delle Bandiere Nere. “Qui ad Al-Qamishli, appena tre settimane fa – ci raccontano poco dopo essere arrivati in città – c’è stato un attentato bomba dello Stato Islamico. Ogni tanto ritornano”, nonostante la presenza anche di un piccolo presidio delle forze militari di Damasco. Kobane è blindata e sicura, mentre quando entriamo a Raqqa lo facciamo solo dietro promessa: “Potete venire – ci fanno sapere le Sdf –, ma a condizione che ve ne andiate via entro le 15. Dovete allontanarvi prima che cali il sole. La notte, le cellule dormienti si attivano e compiono attentati. Voi siete occidentali, date nell’occhio”. Secondo i dati diffusi dal Rojava Information Center, a luglio, agosto e settembre il numero degli attacchi di Daesh nel Rojava è tornato a crescere.

A luglio, tra autobombe e incursioni armate, si sono verificati 85 episodi. In aumento esponenziale gli attentati nella regione di Jazirah, che comprende i cantoni di al-Hasakah e di Qamislo e la città di Serê Kaniyê, e che in genere è considerata maggiormente sicura: 30 gli attacchi totali, il doppio rispetto al mese precedente. Ad agosto è andata persino peggio: 95 gli attentati complessivi nelle aree in mano ai curdi – 35 le vittime – di cui 45 nella regione di Jazirah. Nella provincia di Deir el-Zor, ultima roccaforte dello Stato islamico, le offensive sono stabili: 55 a giugno, 48 a luglio e 49 ad agosto. Mese, quest’ultimo, durante il quale le Sdf hanno arrestato 78 miliziani di Isis.

Le circa 60mila unità delle Sdf riescono comunque a mantenere il controllo del vasto territorio ma, oltre a non possedere i mezzi necessari a respingere un’offensiva di Ankara, questa metterebbe a serio rischio anche la gestione degli oltre 12mila combattenti dello Stato Islamico nelle loro prigioni: “Se la Turchia ci attacca – dice Bali – sarà come se offrisse supporto diretto a Isis. Non possiamo garantire di riuscire a mantenere i jihadisti in custodia e oltretutto, in caso di invasione, dovremmo spostare le nostre truppe dalle aree liberate alle zone di confine” con la Turchia. Operazione che alleggerirebbe la pressione sulle cellule di Daesh, favorendo un loro ritorno.

L’idea del presidente Trump è di consegnare i foreign fighter in mano ai curdi, in special modo i 2.500 europei, alla Turchia e chiedere ai paesi del vecchio continente di riportarli a casa. Ma non ha tenuto conto di due aspetti. Il primo, ossia che Forze Democratiche Siriane e governo turco praticamente non si parlano e non torneranno a farlo in maniera diplomatica in caso di invasione di Ankara. Secondo, al di là del confine, nel nord della Siria, la Turchia è considerata un alleato dello Stato Islamico: “Quando Isis controllava il confine con la Turchia, Ankara aveva relazioni commerciali con loro – dice Bali – I jihadisti feriti venivano curati negli ospedali turchi. Abbiamo prigionieri che in passato sono stati curati là, con Isis che aveva gli aeroporti turchi a disposizione. La Turchia è stato un passaggio sicuro per i terroristi che volevano venire qui e adesso può diventare un passaggio sicuro per tornare in Europa”.

Fino a oggi, Stati Uniti e membri della coalizione occidentale hanno rappresentato una garanzia di protezione almeno dagli attacchi della Turchia. Oggi, però, questa sicurezza è venuta meno. E il pensiero di Mustafa Bali e dei combattenti Ypg/Ypj va agli onnipresenti manifesti dei loro compagni morti nei passati anni di guerra, ai 4mila giovanissimi combattenti uccisi durante l’assedio di Kobane e seppelliti nel cimitero a loro dedicato, poco fuori città, e alle centinaia di volontari stranieri che hanno dato la vita per sconfiggere lo Stato islamico in Siria, ricordati come martiri nei cartelloni giganti sparsi per tutto il Rojava.

Twitter: @GianniRosini
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