Di certo Massimo d’Azeglio e Alexandre Dumas padre saranno trasecolati, nella quiete dei loro sacelli, apprendendo il ritiro del guanto di sfida da parte di Luigi di Maio – al tempo stesso novello Ettore Fieramosca e D’Artagnan – lanciato e poi inopinatamente ritirato nei confronti di Matteo Renzi; a sua volta chiamato alla parte tanto di Charles de Torques come di un trio di moschettieri in un sol colpo (ruolo strabordante quest’ultimo, si presume particolarmente gradito per un inveterato iomaniaco quale il giovanotto di Rignano sull’Arno).

Per oscure motivazioni politichesi avanzate dal ragazzo di Pomigliano d’Arco.

Un po’ come se lo sfidante di Barletta si fosse defilato polemicamente, preconizzando future testate inferte da Zinedine Zidane al nostro Marco Materazzi, o se il giovane guascone avesse cancellato l’appuntamento dietro il convento dei Carmelitani Scalzi per non accreditare la strategia d’immagine declinante, nella cerchia parigina degli spadaccini addetti ai lavori, di Athos, Portos e Aramis.

Anche questo segno dei tempi, in cui furbetti e furbastri del quartierino la fanno da padroni, consegnando al dimenticatoio serietà e dignità. Svilendo quella nobile attività chiamata politica (“vita activa” per Hannah Arendt) a puerile calcolo bottegaio, mixato con retoriche sempre più vane e roboanti.

Senza rimpianti del tempo passato (che, molto spesso, è una fortuna che sia passato), almeno allora vigeva un orgoglio che diventava decenza. Tanto da rischiare non solo la faccia ma persino la vita; come Felice Cavallotti, l’ex garibaldino e politico radicale morto il 6 marzo 1898 duellando con il giornalista conservatore Ferruccio Macola che l’aveva offeso. Ma qui si trattava di indiscutibili teste calde.

Forse il migliore esempio di uno stile ben diverso dell’attuale, risale al 7 novembre 1955; che mi permetto di ricordare ai più giovani perché non ne troveranno traccia nei social o tra le fake news. Nel 1952 Ernesto Rossi, grande polemista di un settimanale ormai dimenticato (il Mondo, diretto da Mario Pannunzio), dedicava ironicamente il proprio saggio “Settimo, ruba un po’ meno” al leader dell’industria privata Angelo Costa: «Ho dedicato questo libro al presidente di Confindustria, perché a lui attribuisco il merito di avermi convinto dell’opportunità di una ristampa degli articoli qui raccolti. Non è un merito consapevole; è un merito dello stesso genere che i patrioti illuminati del Risorgimento riconobbero, nel processo di unificazione dell’Italia, all’imperatore Francesco Giuseppe, e del merito che noi federalisti oggi riconosciamo a Stalin di promuovere, con la sua politica di espansione imperialistica, gli Stati Uniti d’Europa».

Allora Costa non rispose a questa dedica oltraggiosa. Lo fece tre anni dopo, terminato il suo mandato confindustriale e con Rossi che aveva pubblicato un nuovo pamphlet, “I padroni del vapore”: l’invito a un pubblico faccia a faccia. Il confronto, anche via radio, si svolse presso il Collegio Romano e arbitrato da Ugo La Malfa quel 7 novembre.

Fu uno scontro durissimo, alla fine del quale Rossi si sentì in dovere di concedere l’onore delle armi al suo contraddittore: «Se la categoria che lei, non so perché, difende, fosse composta in maggioranza da uomini come lei, non avrebbe bisogno di essere difesa per convincere uomini come me della sua funzione sociale».

O gran bontà dei cavalieri antichi!

Qualcuno ne scorge traccia nel panorama che ci scorre innanzi agli occhi quotidianamente?

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