Incentiva la conoscibilità dei candidati, permette ai cittadini di scegliere il proprio parlamentare, si rinsalderà il rapporto tra eletti ed elettori, rispetta la rappresentatività, favorisce le coalizioni, darà governabilità. A leggere i titoli dei lanci d’agenzia, secondo i partiti che l’hanno approvata con una maggioranza vista quasi mai al Senato dalla nascita della Repubblica, la nuova legge elettorale mantiene tutti questi impegni. Ma a riascoltare gli interventi degli esponenti di partiti, movimenti e gruppuscoli che in Parlamento hanno sostenuto il Rosatellum una delle frasi che ricorre di più è che “la legge non è perfetta, ma le leggi elettorali non sono mai perfette”. Una formula-paracadute che nasconde l’unico pregio della legge – “armonizzare” i sistemi elettorali di Camera e Senato, come chiesto dal presidente Sergio Mattarella quasi un anno fa – e la mezza verità sulla “legge non perfetta”.

In realtà la riforma raggiunge principalmente due obiettivi. Il primo: accontenta tutti i partiti principali che l’hanno voluta. E’ per questo che ciascun pezzo della legge, come un Frankenstein, accontenta uno dei contraenti del patto. C’è più proporzionale che maggioritario perché lo vuole Berlusconi, c’è una quota di collegi che fa fare il pieno alla Lega Nord nei suoi territori, c’è una soglia di sbarramento raggiungibile e le pluricandidature perché fa comodo soprattutto ad Alfano, non favorisce troppo le coalizioni perché Renzi e Berlusconi vogliono tenersi le mani un po’ libere da alleati scomodi, sfavorisce i partiti non coalizzati – e non ci vuole molta fantasia per capire quale sia in questo momento – e rende difficile la vita dei fuoriusciti di sinistra (Ferruccio De Bortoli l’ha chiamata “logica vendicativa”). E’ un patchwork, un cacciucco che va bene a chi l’ha voluto. “Una legge elettorale non è un vestito da Arlecchino” ha detto Piero Fassino giustificando così il fatto che M5s e sinistre non fossero d’accordo con la legge (a cui dà un 7 di voto). In realtà non c’è metafora più aderente.

E’ un vestito cucito a regola d’arte. Cioè secondo i contorni disegnati dalla Consulta. Ed è il secondo obiettivo raggiunto. La Corte costituzionale aveva bocciato le liste bloccate e sterminate del Porcellum dove uno poteva essere eletto anche al tredicesimo posto di un elenco appeso fuori dal seggio, ma non le liste bloccate tout court. Aveva fatto passare le pluricandidature. Aveva chiesto di armonizzare le leggi di Camera e Senato. Aveva detto di preferire il proporzionale al maggioritario. La legge, ha scritto Henri Schmit su lavoce.info, “riflette cinicamente le condizioni permissive di questa giurisprudenza”. “Sorpresa – ha confermato tempo fa il costituzionalista Michele Ainis – l’oltraggio alla Costituzione non c’è”. Così i partiti che l’hanno approvata si sono accontentati di cristallizzare il sistema attuale, dopo essersi trovati all’ultimo tuffo – dopo 11 mesi – a mettere una pezza al paciugo di un Italicum fallito davanti alla Consulta e per giunta valido solo per la Camera. Aggiunge Ainis: “Dopo l’aborto di un maggioritario (il nuovo Mattarellum), di un proporzionale (il simil-tedesco), ora è la volta d’un sistema misto. Come se alle forze politiche italiane mancasse un’idea di società, una direttrice culturale di cui la legge elettorale dovrebbe essere strumento”.

Questi due obiettivi il Rosatellum li raggiunge. Quindi, aveva già detto Ainis, “no, non è incostituzionale: è immorale”. E’ scritto per i partiti e non per i cittadini, come ha detto l’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Così tutto il resto – la governabilità, la rappresentatività, la scelta libera dell’elettore, la conoscibilità dei candidati – rischia di essere una serie di illusioni ottiche. Queste.

Rosatellum: tra ribaltoni, ingovernabilità e casta. Ecco la legge elettorale patchwork: a ogni partito un pezzo

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