Tempi duri per la vostra inviata al Vigorito e la sua squadra. Dopo undici sconfitte, sfilze di record negativi e risultati troppo severi che fanno apparire i giallorossi più schiappe di quanto realmente non siano (c’è anche del buono che, a tratti, emerge come è avvenuto ieri nel secondo tempo), l’assurda fissazione per i numeri continua a regnare sovrana nella serie A e il Benevento non molla la quota zero dei suoi punti. Sebbene la letteratura insegni che la tragedia si presta particolarmente alla narrazione, è pur vero che, a un certo punto, è necessaria una variazione nella trama. Se non altro, per rendere ancora più tragico il tragico.

Ah, quanto avrei voluto potervi raccontare di un pareggio! Quanto ho desiderato cantare una vittoria! Ho visto tutte le partite in trasferta nei bar più hardcore della città per poter riferire ai lettori uno spaccato di un punto, ma invece ho dovuto riportare ogni volta lo zero spaccato. Ora, è facile raccontare i trionfi, le battaglie, le gesta eroiche, l’ira funesta, le-donne-i-cavalier-l’arme-gli-amor, il sepolcro liberato e compagnia bella, ma provate a scrivere undici capitoli su undici sconfitte: è un esercizio di afflizione nell’afflizione.

Ripeto: un mutamento nella narrazione è necessario. Anche perché, da quanto ho visto, la serie A è per il romanzo tradizionale e non ammette i princìpi estetici di certi film francesi degli anni Sessanta in cui non avviene assolutamente nulla e no, alla Serie A non piace nemmeno Samuel Beckett. Numeri, gol, punti, percentuali, possesso palla, classifica marcatori: questo conta per la massima serie. Pertanto, per dare la svolta alla trama di questa rubrica, è intervenuto a gamba tesa il più anti-poetico e anti-sperimentale degli enti sovrannaturali, il ministero della Pubblica istruzione (che da ora chiameremo Miur), il quale ha deciso di spedire la vostra inviata dal Vigorito a insegnare storia dell’arte in una scuola nei pressi del San Siro (giuro: che il Miur mi fulmini se non è vero).

E allora, per il senso di colpa di aver lasciato vacante il mio scranno tra i distinti, ho sognato Ciro Immobile e ieri, per la prima volta, ho visto da sola, seduta accanto alla mia valigia di cartone da emigrante, la partita al Vigorito dal computer, riconoscendo i settori, il vocione della curva, lo striscione “Shanghai” e quello “Stregoni del Nord”. Ho cercato i miei cari tra i tifosi e ho anche cantato a squarciagola, per la gioia dei vicini, il coro che recita: “Totalmente dipendente/non so stare senza te/ la Strega mi scorre nelle vene/ ti amo Benevento alè”.

E confesso che mi si è intenerito il cuore davanti allo sponsor di una Falanghina e del mobilificio dove abbiamo preso la libreria del soggiorno. Fino a quando, alla fine del secondo tempo, dopo il fischio dell’arbitro, sul viso è caduta una lacrima. Forse di tristezza per l’ennesima sconfitta, forse di improvvisa nostalgia.

P.s.: La quinta edizione del Premio Stregone va al mio alunno seduto al primo banco, con la felpa dell’Inter e uno scudetto enorme tatuato sull’avambraccio che, appurato la mia origine beneventana, ha subito chiosato: “Tranquilla, prof: il campionato è lungo. C’è ancora tutto il girone di ritorno! Non faccia quella faccia!”.

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