Non era mai successo. Due ex-presidenti, due uomini molto diversi, di diversa appartenenza politiche, che a distanza di poche ore attaccano il presidente degli Stati Uniti in carica, accusandolo di essere prodotto e strumento di un imbarbarimento senza precedenti della società americana. Non era mai successo, ma è successo ora. Barack Obama e George W. Bush hanno parlato – con preoccupazione, sconcerto, ansia – dello stato attuale delle cose americane. E, senza mai citarlo, hanno preso di mira il loro successore: Donald J. Trump.

Barack Obama ha parlato a un paio di comizi a sostegno dei candidati democratici a governatore di New Jersey e Virginia. Ha difeso la riforma sanitaria (che Trump vuole cancellare) e poi, in un discorso a Newark, ha spiegato che c’è gente “che guarda a 50 anni fa. Ma siamo nel 21esimo secolo, non nel 19esimo”. Il riferimento allo slogan di Trump in campagna elettorale, “Make America Great Again”, è parso chiaro a tutti. Come è parso chiaro anche l’appello che Obama ha fatto perché la gente voti. “Nessuna elezione è garantita. E sapete di cosa parlo”, ha detto Obama, in un altro ovvio riferimento alla sconfitta inattesa di Hillary Clinton alle presidenziali 2016.

Molto più diretto, per certi versi più angosciato e polemico, è parso George W. Bush. Nel corso di un incontro a New York, sponsorizzato dal centro che porta il suo nome, Bush ha lanciato un appello preoccupato sullo stato della democrazia in America. Il sistema politico è corrotto da teorie cospirative e totali montature”, ha detto Bush, secondo cui il nazionalismo “è stato distorto in una forma di nativismo”. Di più, ha aggiunto: il discorso politico è continuamente viziato “da una forma di crudeltà casuale… il bullismo e il pregiudizio nella nostra vita pubblica fissano il tono della nazione e lasciano spazio alla crudeltà e al fanatismo”.

Proprio in tema di fanatismo, durissimo è stato anche l’attacco del vecchio presidente alle forze della destra radicale e neo-nazista che hanno approfittato dell’elezione di Donald Trump per farsi largo nel dibattito pubblico. “Il bigottismo o il suprematismo bianco in qualsiasi forma sono una cosa blasfema rispetto al credo americano”, ha spiegato Bush, che per mostrare ancor più la sua distanza dalle politiche dell’attuale amministrazione ha iniziato il suo discorso – significativamente intitolato “The Spirit of Liberty” – parlando in inglese e in spagnolo, e notando che tra il pubblico c’erano rifugiati da Afghanistan, Cina, Corea del Nord e Venezuela, simboli del “dinamismo dimenticato che l’immigrazione ha sempre portato all’America”.

Anche Bush, come Obama, non ha mai citato l’attuale presidente. Non ce n’era comunque bisogno. Ogni riga del suo discorso – dai riferimenti all’immigrazione all’esaltazione del libero mercato – sono apparsi un attacco a Trump. La cosa ha creato una notevole impressione – in sala e nella politica americana. A differenza di Obama (che aveva già parlato contro Trump in altre occasioni, in tema di immigrazione, sanità, disimpegno dagli accordi di Parigi), George W. Bush si è sempre mantenuto lontano dalla cronaca politica. Non è mai intervenuto su nessuna delle decisioni prese dal suo successore Obama. Non è mai davvero intervenuto nemmeno nei giorni più caldi dello scontro tra il fratello Jeb e Trump, durante le primarie repubblicane. Le sue parole, oggi, appaiono quindi particolarmente pesanti.

La convergenza (critica) dei due vecchi presidenti invita comunque a qualche riflessione. Nel caso di Obama, la chiave di interpretazione è più semplice. L’ex-presidente resta una figura estremamente popolare nella galassia politica democratica. E’ l’unico che, al momento, riesca a unificare il partito, le sue correnti, i suoi gruppi etnici e sociali. Magari i settori più radicali, quelli che fanno capo a Bernie Sanders, non lo amano; ma comunque lo rispettano. E quando si tratta di far campagna elettorale, il nome di Barack Obama funziona sempre. In vista delle presidenziali 2020 ci saranno sicuramente altri capaci di trovare consensi e sostegno: lo stesso Bernie Sanders, e Joe Biden, Elizabeth Warren, Cory Booker. Al momento, Barack Obama è però l’unica voce – in un partito democratico drammaticamente privo di volti nuovi – capace di raccogliere opposizione e indignazione nei confronti di Trump – e in grado di indirizzarla politicamente.

Più complesso è invece il discorso per quanto attiene ai repubblicani. Le parole anti-Trump di Bush arrivano a poche ore da un intervento simile di John McCain. Il vecchio senatore dell’Arizona, minato da un tumore al cervello, nemico ormai storico di Trump, ha ricevuto alcuni giorni fa la “medaglia della libertà” del National Constitution Center. Nel discorso di ringraziamento ha messo però in guardia contro il “nazionalismo pretestuoso” che sta prendendo piede negli Stati Uniti, denunciando anche il fatto che il Paese sta abbandonando il ruolo di leadership esercitata nel mondo a partire dalla seconda guerra mondiale. Un vuoto che il vecchio senatore, prigioniero di guerra in Vietnam, ha definito “non-patriottico”.

C’è quindi sicuramente, nella reazione di vecchi leader del G.O.P. come Bush e McCain, il senso di frustrazione e spaesamento che l’elezione di Trump porta con sé – con la fine del vecchio mondo e delle certezze di cui il partito repubblicano liberista, pro-business, a favore del libero commercio, di una politica interventista e atlantica, si è per anni alimentato. Ma c’è qualcosa di più. Nelle parole di Bush, come in quelle di McCain, c’è probabilmente il timore che la stella di Trump possa non essere temporanea, che la sua elezione a presidente non sia un intoppo della Storia ma un elemento strutturale, che porti con sé la disgregazione delle vecchie élites, dei consolidati equilibri di potere, delle strategie politiche interne e internazionali su cui i repubblicani (ma in fondo anche molti democratici) si sono fondati per decenni.

Ci sono, da questo punto di vista, alcuni segnali che preoccupano la vecchia élite repubblicana. Per esempio, l’abbandono di una serie di deputati e senatori che in questi anni hanno appoggiato le leadership di Camera e Senato, quindi di Paul Ryan e Mitch McConnell. Alla Camera sono dati per partenti deputati come Pat Tiberi, Dave Trott, Charlie Dent (tutta gente molto vicina a Ryan). Al Senato se ne va sicuramente Bob Corker, e anche McCain lascerà con ogni probabilità il posto. La giustificazione ufficiale per gli addii è spesso di carattere personale. In realtà, sono le difficoltà del partito, le scarsissime realizzazioni legislative di questi mesi, l’impossibilità di fissare una strategia comune con la Casa Bianca, a far abbandonare il proprio posto a Washington.

Mentre pezzi importanti dell’establishment repubblicano lasciano, forze e uomini finora costretti ai margini cercano di emergere. In Alabama il giudice ultra-conservatore Roy Moore ha conquistato la candidatura repubblicana al Senato contro l’uomo appoggiato dall’establisment di Washington, Luther Strange. Moore ha goduto dell’appoggio incondizionato di Steven Bannon, l’ex capo stratega della Casa Bianca, che sta lavorando per il trionfo di altri candidati fortemente nazionalisti e conservatori – per esempio Chris McDaniel in Mississippi e Mark Green in Tennessee – grazie anche alle donazioni del miliardario degli hedge fund Robert Mercer. Il disegno di Bannon è piuttosto chiaro: concludere quella virata a destra del partito, iniziata con l’esplosione del Tea Party nel 2010 e continuata con l’elezione di Trump alla presidenza.

In questo quadro, discorsi come quelli di Bush e McCain sono al tempo stesso il segno di un forte disagio verso il possibile nuovo corso nazionalista e populista del partito repubblicano e il tentativo disperato di riprendere in mano le redini di quello stesso partito. Ci sono, da questo punto di vista, segnali incoraggianti per la vecchia leadership. I numeri di Trump paiono infatti disastrosi – i peggiori mai rilevati per un presidente degli Stati Uniti. Soltanto il 36 per cento degli americani approva la sua gestione degli affari (sondaggio Quinnipiac del 27 settembre). Se le primarie repubblicane (che ci saranno nel 2020) si tenessero oggi, Trump non sarebbe nemmeno sicuro di imporsi in New Hampshire (soltanto il 45 per cento degli elettori repubblicani dello Stato lo rivorrebbe candidato). Sanità e immigrazione sono emblemi di fallimenti legislativi di cui non si individua la fine.

Sfidare apertamente Trump, dall’interno del partito repubblicano, sperare in una sua débacle nel 2020, mostrarne la non riconciliabile distanza da valori, storia, uomini della tradizione conservatrice – insomma, quello che ha fatto Bush – potrebbe dunque essere l’ultimo, disperato tentativo del partito di bloccare la marea montante del trumpismo e dei suoi figli e alleati.

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