La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex direttore del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, per il comandante e per altri soggetti che sarebbero coinvolti nell’evasione di tre detenuti avvenuta un anno fa. Ma in che modo vi sarebbero coinvolti?

Sempre la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per i due poliziotti che erano a guardia della sezione del carcere romano di Regina Coeli dove il ventiduenne Valerio Guerrieri si è suicidato lo scorso febbraio. Quale sarebbe la loro colpa?

Cominciamo dall’evasione. Non sappiamo cosa la Procura imputi al direttore, ma conosciamo bene quell’istituto. Un istituto che, grazie a una lunga storia di gestioni intelligenti, ha saputo improntare la propria vita interna alla sorveglianza dinamica, alla responsabilizzazione del detenuto, al dinamismo nel campo del lavoro, della formazione, dell’istruzione (non è un caso che tutte e tre le Università romane siano ben radicate dentro Rebibbia). È stato anzi proprio in tempi recenti che questa impostazione sembrava aver fatto passi indietro, cosa che noi non abbiamo mancato di criticare pubblicamente. Ma nessuna critica alla gestione può trasformarsi in un plauso al tentativo di trovare il capro espiatorio per un episodio di evasione. Ripeto: non sappiamo cosa la Procura imputi al direttore, ma il rischio che si voglia trovare un responsabile ad ogni costo mi pare alto.

Quale potrebbe infatti essere stata la colpa della direzione del carcere o del vertice della polizia penitenziaria interna? In che modo avrebbero potuto giocare un ruolo nell’evasione dei tre detenuti? Il reato contestato sarebbe quello di colpa del custode. Non ci sarebbe ovviamente dolo nel comportamento ipotizzato dalla Procura. Gli accusati non avrebbero voluto far evadere intenzionalmente i tre uomini. Piuttosto, non li avrebbero – colposamente – custoditi a sufficienza. Ma che segnale si lancia in questo modo al mondo delle carceri italiane? Cosa verrà recepito dall’amministrazione penitenziaria? Che gestire un istituto in maniera attiva, aperta, dinamica è rischioso. Che è ben più sicuro richiudere ogni cella, tornare all’ozio forzato dei detenuti stesi sulle brande per ventidue ore al giorno, cancellare corsi, attività, esperienze lavorative. Si etichetta come pericoloso un modello di vita interno faticosamente conquistato negli ultimi anni e più rispettoso del dettato costituzionale. Chi non fa non falla. Se in un carcere non accade nulla di nulla, non accadrà mai neanche un’evasione. Tuttavia, piuttosto che l’immobilismo totale, credo che si potrebbero prendere precauzioni differenti.

Veniamo a Valerio Guerrieri. Cosa si imputa ai due poliziotti accusati? Il ragazzo, secondo le indicazioni date, doveva essere controllato ogni quarto d’ora. La firma degli agenti sul registro, proprio al momento drammatico del suicidio, appare invece dopo ventidue minuti dal controllo precedente. Sarebbero stati questi sette minuti di ritardo nel consueto giro di sezione ad aver causato la morte di Guerrieri. Non è anche questa la ricerca di un capro espiatorio? Sarebbe davvero colpa dei due poveri poliziotti? Io credo che piuttosto bisognerebbe interrogarsi su un sistema incapace di intercettare le disperazioni di un ragazzo con problemi psichiatrici che, secondo la stessa disposizione del magistrato, non avrebbe dovuto trovarsi in carcere bensì in una struttura a vocazione sanitaria. Bisognerebbe interrogarsi sul senso del mandare in galera un ragazzo con un evidente disagio mentale perché risponde male a un agente per strada. Bisognerebbe interrogarsi su quella freddezza nella gestione delle vite umane e su quelle mancanze della giustizia che non è giusto ridurre a sette minuti di ritardo.

Una giustizia che tuttavia continua ad aver bisogno di capri espiatori. In queste due storie sembra averli trovati.

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