“Siamo studenti, non siamo operai”, hanno gridato gli studenti che hanno manifestato venerdì scorso in molte città italiane contro l’alternanza scuola-lavoro. Ma anche contro molto altro, a partire dalla sicurezza, che nelle scuole continua ad essere troppo spesso una promessa. Slogan, certo, quelli degli studenti. Per questo non sempre sintesi di ragionamenti. Frequentemente parole che fanno rumore. Devono colpire. Questa volta l’hanno fatto, anche se forse non nella direzione sperata.

In questo caso la contrapposizione tra studenti e operai ha provocato la reazione non del ministro dell’istruzione, oppure di qualche politico al governo, ma dei sindacati. Anzi del sindacato di quegli operai ai quali gli studenti non vorrebbero essere accomunati, “Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro”, ha tuonato in un tweet Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl.

Solo un incidente? Insomma un difetto di comunicazione da parte di chi ha sfilato pensando alla propria condizione? Pur volendo concedere agli studenti le attenuanti del caso, non sembra. Già, non sembra proprio. I nuovi sessantottini hanno tutta l’aria di voler andare da soli. Di sentirsi diversi a tutti gli effetti dagli operai. No, questa volta non si tratta di abbigliamento. Ormai differenze non ne ne esistono quasi più. Non esistono capi d’abbigliamento simbolo. Tutto riposto e dimenticato, come se non fosse mai esistito. Non esiste più l’eskimo e neppure la tolfa. Ci si veste generalmente alla stessa maniera. Ma i pensieri sono diversi. Lontanissimi tra loro.

Gli studenti non si riconoscono negli operai. Sembra passata un’eternità dal ’68. Allora c’era stata la contestazione con l’occupazione di numerose facoltà, cortei, grandi manifestazioni e scontri con le forze dell’ordine. Poi, sull’onda dell’“operaismo”, il movimento studentesco aveva individuato nella classe operaia il suo interlocutore privilegiato. Un cinquantennio di politiche della scuola scriteriate, di riforme autolesionistiche, hanno cancellato quel rapporto. Lo hanno trasformato in dichiarato antagonismo. Ma addossare ogni colpa alla politica italiana sarebbe ingiusto. Se è vero che si impara quel che ci viene insegnato, è pur vero che poi a fare la differenza è la capacità dell’individuo, anche se giovane, di farsi delle domandare e di chiedere, di informarsi e di farsi delle idee. Ed in questo, almeno, la generazione che ha manifestato in molte città italiane, sembra aver mancato. Sembra aver mancato di esercitare il proprio spirito critico.

“Avete faccia di papà, vi odio come odio i vostri papà… siete pavidi, incerti, disperati ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati. Prerogative piccolo-borghesi… chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi)… che la stella della buona borghesia vi assista!”. Il Pier Paolo Pasolini della famosa poesia “Il Pci ai giovani” si scaglia contro il Movimento studentesco dopo l’aggressione ai poliziotti a Valle Giulia. E’ il 1968. Il fallimento di quella esperienza non sembra aver insegnato nulla. A nessuno. Non ai giovani di allora, padri oggi degli studenti che gridano contro gli operai. E neppure alla politica. Sempre più inadeguata a riformare la scuola.

Dietro molti dei “bravi figli borghesi” di Pasolini c’era forse una eccessiva politicizzazione. A guidare molti dei nuovi sessantottini, slogan troppo volte gridati ma non pensati. Cari ragazzi, chiedete scuole sicure e un’alternanza scuola-lavoro davvero efficace, utile, per il vostro percorso. Ne avete pieno diritto. Ma lasciate perdere gli operai, non sono loro il vostro nemico.

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