Cosa fare oggi per l’università italiana, scossa dalla recente inchiesta per corruzione sull’abilitazione scientifica nazionale in Diritto tributario che ha coinvolto 59 docenti? Inutile investire in un’istituzione che secondo alcuni è irrimediabilmente compromessa, in balia di gruppi di potere ristretti? O forse è proprio la scarsità di risorse a esacerbare le logiche di spartizione e lasciare spazio ai corrotti?

L’università italiana ha senza dubbio bisogno di tornare a essere finanziata in modo adeguato, non fosse altro che per compensare i tagli di oltre il 20% subiti negli ultimi dieci anni e per cercare di avvicinarsi almeno un po’ alla media europea di investimento in università e ricerca. Altrettanto importante però è decidere su quali leve agire per scardinarne i meccanismi viziosi e dare il via a una fase di rinnovamento profondo, capace di valorizzare persone e percorsi. Perché, se si vuole combattere sul serio il malaffare di alcune pratiche accademiche, è necessario innanzitutto garantire condizioni di vita e di lavoro decenti alle migliaia di ricercatrici e ricercatori precari che permettono il funzionamento quotidiano delle università nel nostro paese. Spezzando così il cerchio della ricattabilità alimentata dai contratti a termine e dall’economia della promessa, elemento fondante (non l’unico) delle dinamiche di potere perverse presenti nei nostri atenei.

In attesa di vedere quante e quali risorse saranno destinate all’università e alla ricerca nella prossima legge di bilancio, ecco allora tre proposte di intervento che vanno al cuore del problema e che hanno anche il vantaggio di costare poco o – addirittura – nulla.

La prima mossa infatti è a costo zero: vincolare almeno la metà dei punti organico – le risorse che ogni anno il ministero distribuisce agli atenei e che permettono di investire in personale – per l’assunzione di nuovi ricercatori. Ad oggi, con il suo (magro) bottino di punti organico ogni ateneo può fare sostanzialmente quello che vuole: reclutare nuove persone, anche per sostituire chi nel frattempo è andato in pensione, oppure garantire la carriera di coloro che sono già assunti, facendo ad esempio diventare ordinari i professori associati. Non è difficile immaginare quale scelta è stata privilegiata finora e come continueranno ad andare le cose in assenza di un obbligo formale a investire in nuovo personale.

La seconda mossa non solo è a costo zero, ma garantisce una riduzione di spesa e una semplificazione burocratica. Si tratta di costruire un percorso unico di accesso alla carriera universitaria, con un primo contratto da ricercatore a tempo determinato di tipo A di tre anni, ottenuto dopo la partecipazione a un concorso di selezione pubblica (come accade attualmente), a cui far seguire un secondo triennio da ricercatore di tipo B, garantendo sin da subito una programmazione finanziaria adeguata. Successivamente, dopo il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e un’ulteriore valutazione potrà avvenire l’entrata in ruolo come professore associato. Un percorso lineare e definito, invece della selva di posizioni e contratti attuali (senza tutele, alcuni senza neanche il versamento dei contributi pensionistici) e delle farraginose procedure concorsuali che esistono oggi.

Infine, la terza mossa, che un costo ce l’ha – 250 milioni di euro, il 3,5% del finanziamento ordinario annuale – ma che davvero potrebbe cambiare il profilo dell’università italiana: un piano serio di reclutamento per 5.000 nuovi ricercatori, che compensi parzialmente il calo di personale degli ultimi dieci anni dando una risposta al precariato accademico.

Tre semplici mosse per restituire dignità a chi nella ricerca lavora da tempo senza riconoscimento.

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