Il referendum (illegale) sull’indipendenza della Catalogna, come del resto vari fenomeni più o meno analoghi in altri paesi, Italia non esclusa, lascia perplessi. Hanno ancora un senso oggi i nazionalismi e i sentimenti di identità nazionale? Il nazionalismo moderno è un’invenzione romantica di epoca ottocentesca: fu il romanticismo a costruire identità di popoli e nazioni dove prima c’erano re e sudditi, o al massimo cittadini e stati. Sebbene i nazionalismi nella loro epoca abbiano svolto funzioni storiche rilevanti, hanno anche dato origine a guerre e carneficine, e dalla nozione romantica del popolo/volk sono discese anche le varie forme di razzismo che hanno insanguinato il novecento. Molti studiosi di sociologia si sono interrogati sull’origine del nazionalismo, di solito senza potergli trovare alcuna base  oggettiva.

Kark Deutsch aveva scritto in Nationalism and its alternatives che un popolo è un gruppo di persone unite da un errore comune sulle proprie origini e da una comune antipatia nei confronti dei propri vicini; e Benedict Anderson aveva definito immaginarie le comunità nazionali.

Non c’è dubbio che l’unità d’Italia, della Germania, del Belgio o della Grecia furono il prodotto di una idea nazionale anche nobile, così come lo fu la fondazione dello Stato d’Israele. Ma non è possibile separare l’idea nazionale da un fondo di razzismo che distingua “noi” dagli “altri” e bisogna arrampicarsi sugli specchi per rivestire questo fondo di ragioni storiche, linguistiche, culturali, eccetera. Perché prima di tutto, la gente conosce la storia e la cultura nazionale poco e male e se ne interessa ancor meno; in secondo luogo perché storia, lingua e cultura raramente sono tanto unitarie da giustificare una identità nazionale. E infatti, nel tempo, il nazionalismo si è largamente trasformato e le identità nazionali sono oggi in larga misura identità civico-amministrative: se nell’800 quelli che si sentivano italiani hanno fatto l’Italia, oggi è l’Italia che fa gli italiani sulla base di leggi, peraltro alquanto noiose e comunque suscettibili di essere modificate, come dimostra la discussione parlamentare sullo ius soli.

In questo contesto, il referendum sull’indipendenza della Catalogna appare quanto meno demodé, se non definitivamente obsoleto. Molti commentatori apparentemente subiscono ancora il fascino romantico del valoroso popolo catalano che lotta per la sua indipendenza; ma se c’è un evidente progresso nel passare da una identità nazionale volkish a una civico amministrativa, ciò che vacilla è proprio il concetto di un popolo catalano distinto da uno genericamente spagnolo o castigliano o, se è per questo, italiano.

Sotto la malintesa epopea del popolo catalano, ci sono poi le occhiute ed egoistiche ragioni economiche di una minoranza: la Catalogna è relativamente ricca e alcuni possono pensare che, separandosi dal resto della Spagna diventi ancora più ricca. Al di là di qualunque considerazione morale sulla solidarietà tra vicini di casa, questa idea è semplicistica e in questi giorni sta palesando la sua erroneità. Perché la Catalogna è ricca finché è parte di una realtà più ampia, spagnola e europea. Ma molte imprese e aziende, nella prospettiva che possa a breve rimanere Catalogna e basta, né spagnola né europea, cominciano a trasferirsi altrove. In un sistema complesso come uno stato moderno, un cambiamento locale (la possibile deriva indipendentista della Catalogna) causa cambiamenti a catena, spesso imprevisti e indesiderati. Del resto con la Brexit sta succedendo la stessa cosa.

Ovviamente, i ragionamenti qui presentati non giustificano l’incapacità gestionale dei vertici di Madrid, che si sono dimostrati politicamente inadeguati e stupidamente violenti. Ma probabilmente per commettere errori di questa portata servono parecchi incapaci, dall’una e dall’altra parte: non ne basta uno solo o pochi.

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