di Simone Vacatello per Crampi Sportivi

Se ne va Biscardi e i più attenti notano il tempismo con cui il cosmo gli ha prima concesso di assistere alla vittoria della sua battaglia più nota, quella la cui realizzazione sembrava più improbabile: l’introduzione della Var, la benedetta moviola in gambo che riuscì ad assurgere allo status di tormentone principale di una carriera televisiva ultratrentennale. Da un punto di vista squisitamente extra-sportivo, un’altra vittoria che nel bene e nel male gli si può – e gli si deve – riconoscere è la spettacolarizzazione del dibattito sportivo in Tv, al quale ha saputo concedere una dimensione da commedia dell’arte di cui la cronaca era priva.

Con canovacci che cambiavano a seconda della polemica settimanale, su cui interpreti da commedia plautesca improvvisavano siparietti che, pur rivelandosi raramente edificanti dal punto di vista del progresso culturale del Paese, si sono saputi confermare, nel tempo, come fin troppo onesta fotografia di un’Italia cialtronesca e vivace, che si prendeva sul serio quando non ce ne sarebbe mai stato motivo, ma sapeva anche sdrammatizzare all’occorrenza quando le questioni si facevano più spinose dal punto di vista dialettico.

Un ribaltamento continuo della prospettiva di approfondimento e, di conseguenza, un inno all’intrattenimento fine a sé stesso col pretesto del pallone. Da Biscardi si incontravano Alberto Bevilacqua, Sandro Curzi, Tiziano Crudeli e Carlo Taormina, era una specie di conciliabolo universale del disimpegno, in cui politica, giornalismo e cultura si toglievano la pancera. I risultati erano imprevedibili: memorabile, ad esempio, il menage-a-trois tra Maurizio Mosca, il regista Pasquale Squitieri e Vittorio Sgarbi, in cui l’ultimo gioca il ruolo dello smascheratore di populismi e il secondo si fa beccare in flagrante tuffo retorico carpiato sulla distanza tra gli stipendi dei calciatori e quelli dei poliziotti.

Tuttavia, tra una fiera in maschera e l’altra, emergevano spesso tematiche che al giornalista Biscardi stavano seriamente a cuore, come la moviola in campo appunto, che 15 anni fa sembrava solo la più donchisciottesca delle boutade, e la cui attuazione avrebbe paradossalmente nuociuto al suo lavoro, riducendo la possibilità di polemica domenicale. Una battaglia che Biscardi non vinse, però, fu quella a favore della convocazione in Nazionale di Roberto Baggio ai mondiali del 2002. Fare il tifo per Baggio ai Mondiali all’epoca significava davvero valicare il confine tra romanticismo e utopia: il Divin Codino aveva compiuto 35 anni, giocava nel Brescia ed era appena guarito da un infortunio al legamento crociato del ginocchio sinistro.

 Era la Nazionale dei Vieri, degli Inzaghi, dei Del Piero e dei Totti, e alla guida c’era Giovanni Trapattoni, uno dei tanti tecnici col pallino del gruppo, del collettivo, con cui lo stesso Baggio, quintessenza della monade istintiva, refrattaria alle rigidità tattiche, faticava a dialogare. Nella genuina campagna mediatica c’era tutto il Biscardi Nazional Popolare, quello in cerca dell’uomo simbolo a cui affidare il ruolo di frontman e idolo sacro, a dispetto dei tempi che cambiano e che usurano le strutture fisiche, e con buona pace delle aspirazioni degli altri protagonisti. Baggio al Mondiale non ci andò, Trapattoni scelse il gruppo, e quell’Italia (forse sulla carta anche più forte di quella che avrebbe vinto nel 2006) fu eliminata in una controversa gara contro la Corea del Sud padrona di casa. Col senno di poi si può dire che all’idolo sacro fu risparmiata una mazzata storica, ma ai posteri rimane l’idea di un romanticismo indefesso, un lusso che ci si può concedere solo quando nella sconfitta si impara qualcosa su di sé che prima non si riusciva ad accettare. L’Italia di quegli anni, a guardarla oggi, faticava ad ammettere quali fossero i propri limiti e soprattutto dove questi limiti l’avrebbero portata. Ma di questo certo non si può incolpare Biscardi, anzi.

In fondo, tutto si può dire sul respiro della sua televisione, meno che non fosse pluralista.

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