A scuola li riconoscono tutti come “dsa”, un acronimo che nasconde tre parole, disturbo specifico dell’apprendimento. Per chi non mastica il linguaggio degli addetti ai lavori stiamo parlando dei ragazzi dislessici, disortografici, disgrafici e di quelli discalculici.

Da quando esiste la Legge 170 dell’8 ottobre 2010 che riconosce i disturbi specifici dell’apprendimento si è iniziato a registrare i casi, ma negli ultimi quattro anni si è verificato un vero e proprio boom di diagnosi. L’ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna attraverso un’indagine ad hoc sul suo territorio ha lanciato un campanello d’allarme: nell’arco di quattro anni nella regione l’incremento del numero di segnalazioni è stato del 139%, si è passati da 10.526 casi nell’anno scolastico 2012/2013 a 25.135 dello scorso anno. A Rimini l’aumento nell’arco di tempo sopra descritto è stato persino pari al 623% alle superiori ma anche a Ferrara e a Forlì ha superato il 300% di incremento.

Dati che fanno riflettere chi si occupa di questo tema e che nella settima dedicata ai “Dsa”, appena conclusa, sono stati oggetto di discussione nei 400 eventi organizzati dall’Associazione italiana dislessia. I numeri ufficiali nazionali sono quelli del ministero dell’Istruzione che si fermano al 2014/2015. Diagnosi alla mano si contano tra scuole statali e non, di ogni ordine e grado 183.803 ragazzi che manifestano questi disturbi. In particolare sono 108.844 gli alunni dislessici; 38.028 quelli disgrafici; 46.979 i ragazzi segnalati per disortografia e 41.819 quelli per discalculia.

Tradotto in percentuale significa il 2,1% sul totale degli alunni. Un dato che in viale Trastevere stanno aggiornando anche perché secondo l’Associazione italiana dislessia i ragazzi con disturbi dell’apprendimento sarebbero molti di più ovvero circa 350 mila. Numeri che fanno a botte perché da una parte sembra che siano minori rispetto alla realtà dall’altra parte registrano un’impennata che fa pensare come spiega il pedagogista Daniele Novara a molte “false diagnosi”.

“Il dato ufficiale resta quello diramato dal Miur che fa riferimento al numero di certificazioni arrivate dagli uffici scolastici regionali. Su questi numeri – spiega il presidente dell’Aid Sergio Messina – vanno fatte alcune precisazioni. La prima: la maggior parte degli alunni con “dsa” sono ragazzi della scuola secondaria di primo grado, seguiti da quelli delle scuole superiori e solo in ultima quelli della primaria. La seconda osservazione: l’Emilia Romagna e la Val d’Aosta hanno percentuali che arrivano al 3-5% perché esiste un sistema di presa in carico migliore. Nel Centro Sud i dati sono ancora bassi, arrivano al massimo all’1%. Questa discrepanza va considerata”.

Messina ha chiara la situazione. In Italia si è iniziato a parlare e riconoscere i disturbi specifici dell’apprendimento solo dal 2010 data di entrata in vigore della Legge 170. “Le prime rilevazioni del Miur – racconta Messina – nel 2011/2012 avevano percentuali dello 0,9 con punte dello 0,03. Se si fa un confronto rispetto a quei numeri è chiaro che in alcune regioni il dato si è persino triplicato. Il rischio è che si possa perdere il controllo: esiste un protocollo diagnostico che va rispettato”. I numeri del dossier dell’Emilia-Romagna confermano quanto sottolinea il presidente Messina. In Emilia, sono più i casi (11.025) segnalati alle superiori piuttosto che alle medie (8.973) e alla primaria (5.137): “Il rischio è che si sia abbassata la guardia e che i disturbi vengano riconosciuti troppo tardi”, sintetizza Messina. Preoccupante anche il numero degli studenti con “dsa” ripetenti sul totale delle segnalazioni: 8,9%.

Per Messina serve un lavoro di prevenzione maggiore da parte dei pediatri ma anche un’attenzione verso i protocolli che devono stabilire le diagnosi. Lo sa bene il pedagogista Daniele Novara che proprio il 19 ottobre presenterà il suo ultimo libro “Non è colpa dei bambini” (Rizzoli) che mette in discussione l’overdose di terapia al posto dell’educazione nella scuola: “Il tema delle false diagnosi non è un pericolo, è un dato oggettivo. E’ inimmaginabile fare una valutazione neuropsichiatrica dopo due incontri. Serve un sistema di verifica accurato. Siamo nella logica del mercato. Il settore “dsa” è sottoposto ancor più che la disabilità alla “mercificazione”: sono tanti i genitori che cercano di ricorrere al riconoscimento del disturbo della dislessia per “salvare” il figlio da una bocciatura. E’ un rischio perché si mettono dei ragazzi su un binario morto. Spesso le difficoltà legate alla letto-scrittura vengono presentate come dislessia. Qualche volta la chiamano “lieve” ma questo è un ossimoro”.

A finire sul banco degli imputati è la scuola. Gianluca Lo Presti, lo psicologo esperto in “dsa” che ha scritto “Nostro figlio è dislessico” edito da Erickson spiega: “Spesso sono proprio gli insegnanti che non riconoscono un dislessico o un disgrafico. Non facciamo di tutta l’erba un fascio ma il problema esiste e ci sono quelli che disattendono il piano didattico personalizzato. I docenti vanno indirizzati con delle linee guida. La formazione va fatta con esperti professionisti che fanno un percorso con i docenti”.

Parole che l’Aid conosce bene visto che nel 2015 aveva proposto ai suoi soci un questionario proprio per fare il punto su come si stava evolvendo la legge 170 dopo 5 anni dalla sua promulgazione. Avevano risposto più di 5000 soci di tutte le regioni italiane e alla domanda se era stata la scuola a segnalare le difficoltà nel minore, il 60% circa aveva risposto di no. E come se non bastasse, il 59% affermava di essere andato spontaneamente presso le strutture del Servizio sanitario nazionale competenti per territorio per richiedere per i propri figli le opportune valutazioni cliniche. E’ il caso di Giovanni Soldini, il noto velista che ha scoperto “da grande” la sua dislessia riconoscendosi nel figlio: “Uno dei miei figli era dislessico e a quarant’anni mi sono riconosciuto. Quando frequentavo la scuola i ragazzi che soffrivano di questo disturbo erano semplicemente degli asini. Da piccolo non comprendevo perché gli altri studiando meno di me andassero bene a scuola. Una volta che mi sono accorto non ho potuto fare nulla perché in realtà ognuno sviluppa le sue strategie per vivere bene. In Italia c’è ancora molto da fare su questo tema, spesso gli insegnanti se ne fregano. Sono stati fatti passi avanti ma non è abbastanza: la scuola deve fare di più”.

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