Nella mia trascorsa attività di cooperatore, iniziata a metà degli anni 70 come fondatore di una cooperativa e poi divenuta attività professionale per lunghi anni, ho avuto modo per le diverse esperienze e situazioni vissute, di conoscere a fondo l’organizzazione della Lega nazionale delle cooperative e mutue, oggi ribattezzata sinteticamente “Legacoop”.

La cooperazione italiana sorta agli albori della storia del movimento operaio e passata attraverso la prima rivoluzione industriale e le due guerre mondiali, è diventata nel secondo dopoguerra un esteso e forte movimento economico di imprese associate, con milioni di soci cooperatrici e cooperatori.

Come nel sindacato, anche nella cooperazione esistevano ed esistono componenti politiche e culturali, e come nel sindacato anche nella cooperazione non si è mai giunti all’unificazione delle associazioni pur richiamandosi agli stessi principi di mutualità, a causa della forte influenza ideologica e politica che i partiti hanno avuto e mantenuto sulle strutture organizzative delle rispettive associazioni.

Tant’è che esistevano ed esistono la Legacoop, la Confcooperative e l’Unione cooperativa, come esistono Cgil-Cisl e Uil, tranne la breve esperienza subito dopo la guerra nel sindacato e quella più significativa ma anch’essa cessata della Flm sindacato metalmeccanico che riuniva Fiom, Fim, Uilm. Questa divisione era di matrice ideologica, all’epoca dei due blocchi e dei muri, fu poi fortemente politica per le strategie che le diverse organizzazioni portavano avanti, nelle rivendicazioni e nel proselitismo che aveva un connotato di adesione a valori e principi di carattere generale. Il liberalismo e il cattolicesimo sociale, così come il marxismo e l’egualitarismo socialista non erano elementi accessori.

L’identitarismo associativo, in particolare per la cooperazione, durò fin quando, a metà degli anni 80, il vento del liberismo non cominciò soffiare forte in tutto l’Occidente, Europa compresa. Fu così che le idee ma soprattutto le pratiche cooperativistiche, cominciarono progressivamente e sempre più rapidamente a mutare.

Dall’originario spirito socialista, ugualitario e anticapitalista, ovvero la cooperazione come forma d’impresa alternativa al profitto privato e alla distribuzione degli utili agli azionisti, si è passati a forme sempre più ibride di società che di cooperativa conservano il nome, ma che hanno di fatto introiettato l’essenza dell’impresa di capitali, pur mantenendo alcuni istituti che formalmente la differenziano dalle imprese private.

Nel frattempo, il rapporto con i partiti, o meglio con il partito perché di fatto si tratta solo del Pd, è stato ed è rimasto organico ma è progressivamente degenerato: un tempo esistevano nella cooperazione le cosiddette “componenti” ovvero i soci e i dirigenti che si identificavano nei diversi partiti discutevano nella loro componente le scelte organizzative e la collocazione dei dirigenti di profilo elevato, poi le indicazioni delle componenti, solitamente condivise con gli organi di partito, venivano ratificate negli organismi cooperativistici, attraverso la mediazione che si determinava tra le diverse componenti.

Era di fatto un sistema lottizzato, ma se non altro questi nomi passavano al vaglio di assemblee che dovevano esprimere una valutazione qualitativa personale, era una selezione dura perché nel partito si vagliavano seriamente le caratteristiche delle persone proposte. Non è un caso se per molto tempo la qualità media di questi dirigenti fu adeguata e non bisogna sottacere che molti quadri tecnici venivano acquisiti dal mercato esclusivamente per i loro requisiti professionali.

Col tempo e con l’abbandono degli ideali originari, contemporaneamente all’aumento sensibile delle retribuzioni manageriali, di fatto parametrate a quelle delle imprese private, la corsa a un posto da dirigente nelle cooperative, divenne un obiettivo primario per molta manovalanza dei partiti che non trovava sbocco nelle cariche elettive.

Ciò ha reso la cooperazione una sorta di refugium peccatorum di lusso, ma non ha certo migliorato la qualità del management. Molti fallimenti sono attribuibili alla scarsezza di competenze, ad avventurismo e al venir meno di quel controllo politico dei partiti, tanto vituperato ma che rappresentava paradossalmente in ogni caso un fattore di maggiore garanzia.

Ora siamo giunti al totale capovolgimento dei ruoli: la crisi di inconsistenza dei partiti li rende subalterni a ogni sistema di interessi, cosicché il movimento cooperativo, in nome della sbandierata autonomia, trasformatosi in una lobby incontrollabile, intende decidere sulla base della sua influenza economica chi debbano essere i dirigenti del partito.

E’ stato così con Matteo Renzi, che ha ricambiato il sostegno della cooperazione alla sua scalata al partito ed è così anche a Bologna, dove la Lega delle cooperative, entra a gamba tesa, al di fuori di ogni immaginabile ruolo che non gli appartiene, per decidere chi sarà il prossimo segretario del Partito democratico.

Ormai non ci si può stupire più di niente ma in questo caso si è oltrepassato ogni limite di decenza morale e politica. Non ci si sorprenda se dopodomani sarà la Confindustria o l’ordine dei commercialisti a dettare legge nelle scelte del partito. In effetti è già così. Povera cooperazione, chissà cosa penserebbero tutti quei cooperatori che hanno dato la vita per difendere le sedi dai fascisti che le assaltavano e le bruciavano.

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