Pur non avendo mai letto Alessandro Baricco, ma avendolo osservato di sfuggita qualche lustro fa – non m’ero ancora sbarazzato dell’apparecchio televisivo –  mentre esibiva quel suo gesticolare affettato e compiaciuto come di chi “si guarda allo specchio anche quando gioca” – dettaglia Fabrizio Farina che ben conosce questo personaggio, si fa per dire, incerto tra il ruolo di scrittore e quello dell’intrattenitore e/o del pubblicitario di lui – même, con qualche assonanza con l’Alberoni d’antan il quale, non altrettanto piacente nonché perturbato dal riportino che gli schermava la calvizie, tradiva una lisca più evidente di quella quasi impercettibile di Baricco, che giusto l’altro ieri in prima serata sui Rai 3, stavolta nel ruolo d’attore e fors’anche di regista, ha dato la stura ad una arzigogolata lettura di Furore – titolo originale The Grapes of Wrath, Grappoli d’ira o Grappoli d’odio – di John Steinbeck in una sorta di lecture anticipata da questa bizzarra pre/messa: “Leggere un libro è un’esperienza solitaria, questo sarà un rito collettivo in cui la storia si appoggerà su tutti e diventerà energia”.

Ma vaaa?

Furore sintetizza l’epopea della trasmigrazione di un nucleo familiare, costretto obtorto collo ad abbandonare la propria terra in Oklahoma, sperando di ricostruirsi un avvenire in California, una speranza che rimarrà delusa. Nella stessa situazione si trovano decine di migliaia di altre persone sfrattate dalle proprie case, visto & considerato che le banche a cui avevano chiesto i prestiti non rinnovano i crediti, confiscano tutto il confiscabile spedendo i bulldozer a spianare case e terreni.

“Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo”, verga Steinbeck in questo suo romanzo incalzante come una sceneggiatura che si legge in una notte.

Questo capolavoro di Steinbeck premio Nobel nonché premio Pulitzer & via enumerando, sulla grande depressione che investì l’america negli anni 30, scritto a quanto pare a sostegno della politica del New Deal di Roosevelt, è un romanzo duro come di solito gran parte della letteratura americana con particolare riferimento a quel periodo –  Steinbeck si ispirò a Caldwell, Dos Passos, Faulkner, Herman Melville, Thomas Wolfe, ma non alla durezza di Cormac Mc Carthy che in quegli anni era appena nato – in cui la letteratura si dedicò alla miseria, alla disperazione e alla morte, che Baricco aveva in animo di appoggiare sui poveri spettatori riuniti in uno stabilimento di Mirafiori, un esempio ragguardevole di archeologia industriale, per l’occasione trasformata in una sorta di discoteca con gli immancabili effetti luce e quant’altro, come la finta pioggia e il finto fango, collocati in un ambiente multimediale edulcorato dalle percussioni dei Baustelle, che con la disperazione di quei terribili anni c’entravano come il cavolo dell’ennesima e dispendiosa merenda televisiva: una bella paraculata ospitata da Mamma Rai per rimpinguare il già debordante ego di Baricco mi ci ficco, come ebbe a definirlo il poeta fi/renzino Riccardo Boccacci.

Baricco narcisista compulsivo ordunque affetto da gestualità ossessiva e da tic di maniera – la linguetta che affiora permanendo secondi in più tra le labbra dischiuse; il libro di Steinbeck sostenuto dalla mano sinistra, mentre quella destra trattiene morbida il costato sinistro secondo i classici e ormai vieti dettami dell’Actor Studio; l’aggiustarsi continuo dell’archetto del microfono; la compiacente ostentazione della gestualità delle mani trattenute a stento & via discorrendo – in una sorta di compendio su come massacrare uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale del ‘900.

(collaborazione di Sabrina de Gaetano)

Foto tratta dalla pagina Facebook della Scuola Holden

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