L’amore e la cattedra nel Paese dei baroni. Lo scandalo di Firenze certifica che il sistema universitario italiano non ha anticorpi al commercio degli incarichi di docenza. Al tempo stesso i formalismi delle incompatibilità si rivelano efficacissimi nell’azzoppare le carriere di quelle coppie di ricercatori e professori che nella vita hanno avuto la sciagurata idea di convivere, sposarsi e fare dei figli perché su di loro – fatalmente – ricade la presunzione di colpevolezza. In tutte le università d’Italia, a ben vedere, c’è infatti una quota più o meno ampia di docenti che– diversamente dai loro colleghi di tutta Europa – sono costretti a rinunciare a una cattedra o a un posto da ricercatore: mica perché non siano bravi o onesti, attenzione, ma solo perché è considerato disdicevole non che lavorino gomito a gomito nello stesso dipartimento – cosa che di fatto avviene da Milano a Palermo – ma che uno dei due possa mai progredire nella carriera candidandosi a un qualunque posto nello stesso ateneo. Un trattamento che visto coi loro occhi sembra la classica foglia di fico, un rigore solo di facciata esibito proprio per non andare a fondo del problema delle assegnazioni pilotate dall’alto per vantaggi indicibili.

Campus Bovisa, dipartimento di meccanica. Qui ha un incarico di docenza di ruolo il prof Maurizio Vedani, classe 1963. Insegna come associato dal 1998 e dal 2002 è professore ordinario. E’ molto bravo, assicurano i suoi studenti e la direzione del Politecnico di Milano non fa mistero d’averlo in grande stima. Ha passato buona parte della sua vita in laboratorio dove, ai tempi del dottorato, ha trovato anche l’amore: Elisabetta Gariboldi è sua moglie dal 1994 e dal 1998 ad oggi – sono i casi della vita – insegna anche lei al Politecnico, proprio nello stesso settore disciplinare di lui. Anzi, proprio nello stesso dipartimento del marito. Gomito a gomito, da quasi vent’anni. Lui è ordinario, lei è associata. “C’è una legge e tocca rispettarla, non abbiamo soluzioni. Stiamo valutando a livello personale cosa fare. L’unica soluzione è che uno dei due si cerchi un altro lavoro”. E non sono i soli nel blasonato ateneo milanese, dove coniugi e parenti in cattedra sarebbero almeno una dozzina. Certo, su 1350 fanno notare dai piani alti di piazza Leonardo Da Vinci. Che non sarebbero poi un problema per il fatto stesso di lavorare sotto lo stesso tetto, ma solo in caso dovessero candidarsi a un posto da ricercatore, associato o da ordinario. Allora, ma solo allora, scatterebbe l’incompatibilità. E’ uno degli effetti perversi del rigore di facciata all’italiana.

Non c’è legge che tenga
In principio fu la legge Gelmini del 2010 che all’art. 18 comma b) stabilisce che “ai procedimenti per la chiamata non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata“. La legge neppure parla di coniugio e sulla base di questo vi fu chi tentò di opporsi a una lettura estensiva. Nel 2012 l’Università di Teramo che fu poi accusata di voler aggirare i limiti perché – sentenzia il giudice – “se l’affinità presuppone il coniugio, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità (si badi, fino al quarto grado), a maggior ragione, deve valere per il coniugio”. Il concetto in legalese suona male ma è chiarissimo: mogli e mariti non solo sono come parenti ma sono anche di più sotto il profilo delle “affinità”.

A porsi il problema del cattedratico “coniugio” fu poi l’Università di Bari, afflitta storicamente dalle parentopoli. “Non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in via mia, ma posso chiamare mia moglie”, scriveva ai colleghi il presidente del Collegio che nel 2015 – in previsione di 31 posti da assegnare – era stato investito del problema, vantando l’ateneo una fama incontrastata nell’assegnazione parentale degli incarichi di docenza (e di direzione). “Questa cosa del divieto per i parenti fino al quarto grado ma non per la moglie è assurda”. Certo, e il Consiglio di Stato di lì a poco gli diede ragione.

Così gli atenei s’adeguano al clima. Varano regolamenti restrittivi che – come recita quello del Politecnico di Milano – estendono l’incompatibilità di legge a chi ha “rapporti di coniugio, convivenze, unioni civili, parentele e/o affinità (fino al quarto grado compreso) con il personale docente del Dipartimento, ovvero con il Rettore, il Direttore Generale o un componente del Consiglio di Amministrazione del Politecnico di Milano”.

Per restare al Politecnico si possono fare un centinaio di passi fino all’ingresso del Dipartimento Scienze e Tecnlogie Aerospaziali. Qui insegna Sergio Ricci, classe 1959, professore associato a tempo pieno. Il suo cv è encomiabile ma da nessuna parte menziona la circostanza per cui al suo fianco c’è anche la moglie, altro professore associato. Due anime, un dipartimento. “Adesso le dico io, perché sono stufo”, è lo sfogo quando si tocca quel tasto. “Io e mia moglie siamo associati e andremmo contro la legge solo in caso partecipassimo a un concorso al quale non potremmo candidarci proprio perché nello stesso dipartimento abbiamo un coniuge. Ma noi non lo facciamo, abbiamo la nostra carriera universitaria come congelata. Mentre potrei citarle almeno una dozzina di casi di colleghi del Politecnico che convivono con altri docenti da una vita e non hanno avuto alcun problema a fare i concorsi e progredire nella carriera. E’ giusto questo o è una discriminazione? Il nostro errore sarebbe stato quello di sposarci nel 2013, e non prima della legge”. Di cui, ovviamente, pensa il peggio possibile. “E’ assurda, davvero. Se eri già ordinario o sposato prima del 2010 vai benissimo. Ma anche io e mia moglie andiamo benissimo, purché non ci sia variazione di carriera perché allora apriti cielo, il nostro matrimonio diventa oggettivo motivo di impedimento e di scandalo, ma per favore. Potrei divorziare ed esibendo quel certificato concorrere come tutti”.

I rettori: “E’ ingiusto, ma abbiamo le mani legate”
Il rettore in persona conferma l’esistenza del problema dei professori legati in matrimonio ma assicura al fattoquotidiano.it che “non sono in corso a livello direzionale decisioni politiche per venire incontro a questi colleghi con forme di mobilità oltre quella disciplinare”. In altre parole non ci saranno scorciatoie. Ferruccio Resta è rettore dal 2013 e il problema lo conosce bene. “Si è materializzato dopo la legge che non sta a me commentare. Di sicuro ci sono una dozzina di situazioni tra parenti e coniugi che si risolvono con la sistematica rinuncia da parte di uno dei due o di entrambi al prosieguo della loro carriera. Non sono convinto che questa soluzione, che voleva premiare il merito, lo faccia davvero. Posto che qui abbiamo dato una lettura restrittiva della legge”.

Cambiamo città ma la sostanza è la stessa. Era convinto che il divieto ai coniugi fosse incostituzionale ed è stato smentito. Il rettore dell’Università di Torino Gianmaria Ajani resta della sua idea: “Quella norma voluta dal legislatore per eliminare situazioni di nepotismo e di malcostume, finisce con la sua rigida formulazione per compromettere la progressione accademica di docenti che hanno l’unico torto di aver scelto di condividere percorsi personali e professionali comuni e obbliga il marito o la moglie a lasciare il posto. E’ una ingiusta limitazione alla libera circolazione dei ricercatori”. Soluzioni? “L’antidoto agli abusi non è la chiusura ma l’apertura massima del sistema di circolazione delle cattedre. All’estero è prevista e favorita la mobilità di coppia dei ricercatori. Solo in Italia si fa finta che non ci siano situazioni di relazione o si mettono paletti insuperabili. Perché di fronte all’indignazione si è scelto di essere più realisti del re. Per poi scoprire che gli approfittatori sono altri”.

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