C’è Mick Jagger, diventato di nuovo padre a settantatré anni, e poi ci sono gli uomini. Perché i maschi fertili fino a tarda età sono un’eccezione: l’orologio biologico ce l’hanno anche loro. È il risultato di una ricerca della Harvard Medical school di Boston condotta su ottomila coppie ricorse alla fecondazione assistita che ha reso giustizia alle donne – considerate da sempre corpi come ordigni col timer – rendendo paritario l’assioma per cui con l’aumentare dell’età, anche la fertilità diminuisce.

Nella sua accezione attuale l’espressione “orologio biologico” (la locuzione originaria indicava il ciclo di regolamentazione di sonno e veglia in base all’orario della giornata) è stata resa popolare da un articolo del Washington Post del 1978 – “The clock is ticking for the career woman” – dove si stigmatizzavano le donne che erano andate al college ed avevano intrapreso una carriera. Prerogativa maschile quella dello studio e dell’affermazione personale, che se scelta le donne pagavano con il tempo “in scadenza”, il tempo utile per avere un figlio. Cose di cui gli uomini, rimarcava l’editorialista, non avevano mai dovuto preoccuparsi.

Ma le cose, col tempo, cambiano. Nessuno mette in dubbio che una donna ha più problemi a restare incinta attorno ai quaranta piuttosto che ai trenta, eppure, la maggior parte delle problematiche legate all’infertilità non attiene all’età delle donne. Secondo i dati della Società americana per la medicina riproduttiva, la percentuale di casi di problemi di infertilità nella coppia va ripartita in un 40% maschile e un altro 40% femminile; il restare 20% pare sia un mistero. Anche nel caso in cui l’infertilità della coppia è da avocare alla donna, le cause sono problemi come endometriosi e ovaie policistiche, non certo l’età. Nonostante ciò, si fa sempre riferimento all’orologio biologico.

Ci viene il dubbio che sia stata usata la retorica dell’orologio biologico per ricondurre le donne a ruoli tradizionali nel momento in cui questi erano messi in crisi. Quando si cominciò a parlarne erano gli anni Settanta, si era in piena fase di mutamento; c’erano i movimenti femministi, cambiava l’ordine sociale, cadevano ruoli, certezze. Una reazione più ideologica che scientifica all’inquietudine del cambiamento.

Della fertilità maschile si è sempre parlato troppo poco. La ricerca ha sempre indagato più le questioni che riguardano le donne: di conseguenza, sulla fertilità maschile molte cose ancora restano poco chiare. Sappiamo però che con l’aumentare dell’età la qualità del liquido seminale diminuisce come pure la sua motilità, cioè la capacità degli spermatozoi di raggiungere un ovulo. È da una ricerca francese del 1995, quando furono analizzati 901 cicli di inseminazione artificiale intrauterina, che si scoprì che l’età dell’uomo era la causale che più condizionava la riuscita della procedura. In un’altra ricerca del 2003, analizzati i campioni spermatici depositati da uomini di età compresa tra i 20 e i 57 anni nelle cliniche per la fertilità, è risultato che la percentuale di campioni con il Dna danneggiato è molto più alta negli uomini tra i 36 e i 57 anni. Infine, un altro studio islandese del 2012 condotto su 78 famiglie, ha concluso che ai figli siano state trasmesse più mutazioni genetiche da parte del padre che da parte della madre, a causa della diversa genesi di ovociti e spermatozoi.

Gli ultimi studi sono un vero allarme fertilità per l’uomo occidentale. La concentrazione spermatica nel liquido seminale, in meno di quaranta anni, sarebbe diminuita di oltre il 50%, più che dimezzata. La ricerca è stata pubblicata su Human Reproduction Update lo scorso luglio.

Tornando al risultato della ricerca della Harvard Medical school di Boston menzionata in apertura, va detto che questa non ha aggiunto molto di nuovo sul fronte della fertilità maschile – che diminuirebbe con l’aumentare dell’età – quanto alla definitiva documentazione che sancisce che per una donna vicina agli “anta” la possibilità di concepire aumenta fino al 70% se il partner ha meno di 30 anni. Una tendenza analoga è emersa anche per il concepimento naturale.

Ora, a voler alleggerire il tono della tematica, si potrebbe sostenere che il toy boy non è più da considerarsi un vezzo da vip, e, anzi, in tempi di calo demografico, un’opportunità per incrementare la natalità in Italia, con una campagna a sostegno il cui claim potrebbe essere: “È scienza, bellezze! Non concupiscenza!”.

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