Cultura

Addio a Pierluigi Cappello, il poeta della gentilezza che usò la parola come riparo dal destino

La settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”

di Antonello Caporale

Mi è venuto di dirgli – appena ci siamo salutati – la cosa più stupida: non arrenderti. Mi ha risposto con un sorriso, fingendo che non fosse una stupidaggine. Abbiamo subito parlato della cinciallegra che lo scovava ogni mattina dal ramo dell’ippocastano piantato appena oltre la finestra, in modo che dal suo letto lo potesse sorvegliare nella crescita, accudire ed esserne accudito. Il castagno d’India era il suo compagno di stanza e la cinciallegra la sua amica quotidiana. Li ritroverete nelle sue poesie, nell’anima di grafite della sua matita, sempre nei suoi pensieri. Pierluigi Cappello è stato il poeta della gentilezza. Il più giovane, forse il più grande poeta italiano contemporaneo. La sua parola gli usciva di bocca dolce e musicata. L’ha usata come riparo e viaggio perenne al destino che gli aveva inflitto l’immobilità per via di un incidente in moto da ragazzo. Midollo spinale in frantumi, sedia a rotelle.

Paolo, amico e medico di tutta la sua vita, mi ha avvertito sette giorni fa: la malattia corre veloce, non c’è più tempo. Alla lettura del messaggio ho ricordato le parole di Pierluigi, alcuni mesi fa, improvvise per me: “Paolo mi ha garantito che se tutto dovesse andare male non mi farà soffrire”. Così è stato.

Lui aveva nove anni, io diciannove quando ci fu la scossa. Lui di Chiusaforte, Friuli di confine, di montagna, io di Palomonte, venti chilometri a sud di Eboli. Estremo Nord e profondo Sud. Il ricordo del terremoto ci aveva uniti. Eravamo ambedue fratelli di sventura, figli dell’Italia delle terre tremule. Lui aveva conosciuto prima di me, il 6 maggio 1976, quel che la natura fece a Gemona, dove nacque, la città martire e nelle decine di altri paesi. Io quello del 23 novembre 1980, che colpì l’Irpinia. I nostri ricordi erano però identici, il mondo contadino e arcaico, il teatro quasi selvaggio e perduto della sciagura, il tempo della ricostruzione, la vita provvisoria e avara nei prefabbricati.

Non ci siamo lasciati. Ho letto tutte le sue poesie, e lui si è interessato al giornalismo. Mi chiedeva continuamente foto, ovunque fossi. Era il suo modo di viaggiare, di guardare il mondo. “Col tempo il letto si è trasformato in un tappeto volante”, scrive in “Questa libertà”, la sua autobiografia. Le raccolte delle poesie più belle le ritroverete in “Azzurro elementare” e “Stato di quiete”, edite da Rizzoli. Le filastrocche, pensate per i suoi adorati nipoti, in “Ogni goccia balla il tango”.

Pierluigi la settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”. Poi ha chiesto a Fabiola, la sua compagna, di farmi ascoltare la sua Inniò, parola friulana bellissima che in italiano si tradurrebbe “in nessun dove”, cantata da Alice. E poi ci siamo abbracciati.

“Ci si sfila dal mondo così/come da un vestito stanco delle feste/quando viene la sera”.
Mandi Pierluigi.

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