Tra le frasi registrate dal ricercatore inglese Jezzi Philip Laroma durante il colloquio con l'(ex) docente Pasquale Russo ce n’è una che mi ha fatto venire particolarmente i brividi. Il professore, stufo delle rimostranze del ricercatore impertinente che non si rassegna a un sistema dove il merito non conta nulla, propone una chiave di lettura originale: “Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”. Per Russo fare l’italiano significa arrendersi all’evidenza che c’è qualcosa più importante delle competenze: le amicizie, le protezioni, gli scambi di favori. Significa piegare la testa senza batter ciglio davanti alle ingiustizie sperando di diventarne prima o poi i beneficiari. Significa valorizzare il potere e non il merito, chi conosci e non cosa sai fare.

Ogni anno più di 100.000 italiani decidono di lasciare il nostro Paese per andare a vivere all’estero; quasi il 37% ha tra i 18 e i 34 anni. Quanti di questi sono giovani che hanno deciso di non fare più gli italiani? Quanti di questi hanno deciso di realizzare i propri sogni all’estero perché stanchi di lottare contro i mulini a vento di un sistema che non ha nessun interesse nel premiare i migliori? Una recente ricerca del Centro Studi di Confindustria ha rilevato come la cosiddetta “fuga dei cervelli” costi al nostro paese un punto di Pil all’anno.

Intendiamoci: fare esperienze all’estero è una scelta importante, che aiuta a crescere, a formarsi e ad arricchirsi umanamente, io stesso l’ho fatto e ne sono felice per l’esperienza di vita avuta e per la crescita professionale che mi ha offerto. A Singapore ho visto amici trasferirsi e non avere intenzione alcuna di rientrare non perché le tasse siano più basse e si guadagni meglio, ma solo perché viene riconosciuto il loro valore e il lavoro con impegno paga.

Migliaia di giovani talenti decidono però ogni anno di lasciare l’Italia perché qui non c’è posto per loro, non perché non siano abbastanza meritevoli, ma perché non sono abbastanza raccomandati. Il loro posto, probabilmente, è occupato dal parente di qualche barone o da un suo protetto. Io vorrei che questi giovani tornassero a fare gli italiani, e non nell’accezione intesa da Russo. Io vorrei che questi giovani tornassero ad arricchire il nostro Paese con le loro capacità e le loro competenze. Vorrei che potessero essere valutati per quello che sanno fare, e non perché sono protetti dal barone di turno.

Cosa significa fare l’italiano? Per me vuol dire essere capaci di creare bellezza e innovazione in ogni ambito, dalla ricerca scientifica alle auto, dall’architettura alla moda. Significa essere precursori, modelli da seguire per l’Europa e per il mondo.

Sono stanco di sentire sempre più diffusa l’idea che fare l’italiano significhi rassegnarsi alla disonestà e ai soprusi. Ogni qual volta andiamo all’estero abbiamo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che essere italiano è un valore aggiunto, non qualcosa di cui vergognarsi. In tutto il mondo l’Italia è sinonimo di bellezza e creatività, e il mondo ci ama più di quanto noi amiamo e rispettiamo noi stessi. Il merito e la competenza non sono soltanto due slogan utili per una campagna elettorale, ma devono diventare al più presto le basi su cui fondare il nostro sistema universitario. 

Un Paese davvero meritocratico è un Paese che cresce, e che dà l’opportunità ai suoi giovani di realizzare i propri sogni senza dover per forza andare dall’altra parte del mondo. E’ un Paese in cui si può tornare ad immaginare che il futuro sia migliore del passato, e non dove ci si debba trovare a rimpiangere i bei giorni in cui si investiva e si pensava al futuro con speranza, perché tutto il Paese remava in quella direzione.

Non guardiamoci intorno, però, non cerchiamo un colpevole facile: parte da noi, dal nostro impegno, dalla nostra integrità. La nostra capacità di alzare la testa e di valorizzare il merito intorno a noi può e deve fare la differenza per il nostro futuro e per il futuro dell’Italia. Tutti noi dobbiamo impegnarci ogni giorno – nelle piccole e nelle grandi cose – per vivere in un Paese che premia merito e talento, non favori e protezioni.

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Architetto ad Amsterdam. “Qui per avere un regolare contratto. Sembra il minimo, ma è proprio quello che manca in Italia”

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“Sono musicista e ho deciso di non lasciare l’Italia. Ma la mia è stata una lotta contro i mulini a vento”

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