Com’è possibile che in tutte le economie sviluppate del globo, benché ovunque ci siano significativi segnali di ripresa economica (compreso in Italia, anche se è più un effetto trascinamento dell’economia globale che per meriti propri) gli indicatori economici siano in rialzo mentre il tanto sospirato indicatore dell’inflazione rimane ostinatamente ancorato al di sotto della fatidica soglia del 2%? Se lo chiedono tutti gli economisti del mondo, e naturalmente tutti gli economisti hanno una risposta, solo che non è univoca.

Quella però che fornisce proprio in questi giorni l’economista francese Nouriel Roubini sul Guardian nell’articolo “Why Central banks are not hitting their 2% inflation target” (Perché le Banche centrali non raggiungono l’obbiettivo dell’inflazione al 2%) appare essere una diagnosi sufficientemente convincente, anche se non è accompagnata da una completa prognosi.

Egli parte dalla constatazione che un’efficace combinazione di fattori attuati in risposta alla crisi del 2008 (dalle politiche di austerity ora terminate e sostituite con sostegni agli investimenti e all’occupazione unite ai prolungati periodi di Quantitative easing) operati in tutte le grandi economie, accompagnati dall’abbondante offerta di prodotti a basso prezzo (in gran parte dalla Cina) e da un lungo periodo di bassissimo prezzo del petrolio, hanno finito col generare quello che in gergo tecnico viene definito “positive supply shock” cioè un’abbondante offerta generalizzata di prodotti nei mercati.

Tutto questo ha generato, grazie al ritorno della liquidità bancaria e ai tassi bassi, una discreta ripresa dei consumi e un conseguente rialzo nell'”indice di confidenza” dei consumatori (più in America che in Europa però, almeno per ora) e a un ritorno agli investimenti da parte delle imprese che però, proprio per effetto del “positive supply shock” ricade più sulle spese per “ammodernamenti tecnologici” (che generano maggiore produttività e minore impiego di manodopera) che sugli “ampliamenti produttivi” (sconsigliabili in questa fase) determinando quindi una ripresa economica con effetti in qualche caso persino negativi sulla ripresa dell’occupazione.

Questo fenomeno produce anche nei paesi dove comunque si raggiunge la piena occupazione (per esempio negli Usa e in Germania) un ristagno nel recupero salariale  che si riflette direttamente anche sull’inflazione.

Come può salire l’inflazione se manca (specialmente negli Usa) una forte spinta sindacale al recupero salariale, se il mercato è già saturo di prodotti e se l’automazione e la produttività assorbono in sostanza tutti i nuovi investimenti, drenando di fatto tutta la nuova liquidità immessa dalle banche centrali nel sistema economico?

Io dicevo già nel dicembre 2013: “Un po’ d’inflazione al giorno toglie la crisi di torno”, ma allora eravamo appena all’inizio dell’austerity. I tassi non erano ancora scesi a zero (o sotto-zero) come adesso, non avevano ancora chiuso i battenti migliaia di imprese e non si erano ancora persi milioni di posti lavoro, ora sostituiti in gran parte dall’automazione.

E non è tutto. Perché (come dice lo stesso Roubini nell’articolo del Guardian) se lo shock è solo temporaneo, si risolverà da solo, ma se è invece permanente bisognerà fissare la nuova stabilità al livello attuale (0%) e smettere di ricercare a tutti i costi una inflazione al 2%. Continuare a farlo (come dicono anche alla Bank for international settlements) porterebbe a un forte eccesso di liquidità e disponibilità di prodotti nel mercato, producendo quindi una “bolla” di grandi dimensioni, molto pericolosa per la stabilità.

Molte banche centrali (è sempre Roubini a dirlo) ritengono che sia solo questione di tempo. Prolungando i tempi della “cura” (Q.e., tassi, eccetera) tutto si aggiusterà da sé. Ma questo ricorda molto (sono io a dirlo, non Roubini) la convinzione di Greenspan quando lasciò fare sui mutui e sulla finanza allegra tutto ciò che volevano gli speculatori, nella convinzione che il mercato si autoregola sempre. Poi si è svegliato di colpo nel settembre 2008 quando, ancora incredulo, vedeva che si autoregolava, sì, ma in modo del tutto sconsigliabile per l’intera nazione.

La Yellen (Fed Usa) verrà presto sostituita per volere di Trump (incapace, com’è noto, di fare scelte di buon senso). Mario Draghi (Bce) ha le mani legate da un sistema europeo che lo costringe, a differenza di tutti gli altri banchieri centrali del mondo, a dirigere un sistema con 27 teste invece che una sola. Il Giappone è sotto la minaccia atomica del folle nord Coreano. La Gran Bretagna ha già la “gatta da pelare” della Brexit.  Chi ci ridarà quel fatidico 2% di inflazione?

Forse Roubini non ha concluso con una prognosi per non spaventarci tutti.

Articolo Precedente

Reddito di base, cominciamo a discuterne con serietà

next
Articolo Successivo

Telecom, Tim e l’elogio dell’italianità

next