“Non mi chiedete di tradurvi i significati degli elementi del mio spettacolo. Ho voluto comunicare in altro modo, per associazioni”. La sera di giovedì 21 settembre, sul palco del Teatro Argentina di Roma, c’è la coreografa tedesca Sasha Waltz. A un certo punto dice più o meno così. Il suo Kreatur, che apre il Roma Europa Festival, è appena finito. Segue dibattito.

Il “balletto” (notare le virgolette, perché il termine è ampiamente riduttivo) ha messo in scena 14 interpreti, 14 corpi, che in un’ora e mezza, cambiano più costumi e trasformano il movimento, evocano emozioni intense e in divenire. A me, personalmente, ha comunicato angoscia dall’inizio alla fine: mi ha evocato prigionia fisica e psicologica, conflitto, desiderio represso e irrealizzabile. Non mi voglio improvvisare critica teatrale, dunque smetto subito e aggiungo solo che proprio per questo mi è piaciuto. Era quello che voleva dire? Boh. Ma quando lei, sul palco, rifiuta l’idea di una “traduzione” narrativa e a parole mi conquista.

Tanto per abusare subito del concetto di “associazioni”, è una mia vecchia teoria quella che scrittori, registi, pittori, scultori e creativi in generale sarebbe meglio non conoscerli mai.
A me è successo più di una volta di innamorarmi letteralmente dei romanzi di qualcuno, poi di conoscerne l’autore e trovarlo antipatico o proprio troppo narciso o decisamente meno geniale di quanto mi era sembrato, leggendolo.

Perché, a che serve l’arte se non a evocare emozioni, a mettere in moto l’immaginazione e il pensiero? Altrimenti, in fondo, che gusto c’è? Il bello è proprio quella relativa parte di “mistero” che resta, quella possibilità di riempire vuoti e cercare significati, di seguire percorsi prima di tutto personali.

E poi, c’è anche un altro elemento: in fondo l’artista e il creativo non sono tali se riescono a comunicare cose che magari sfuggono anche a loro stessi, che non hanno nemmeno pensato in maniera razionale, che vanno addirittura oltre la loro stessa percezione, le loro intenzioni, le loro emozioni consapevoli? A questo punto, mi verrebbe da fare una citazione arci-nota (e artistica, a modo suo): “No, il dibattito no”. Ma poi, pure questo è un po’ troppo definitivo, troppo generico. E suona impositivo. E allora, il dibattito ni. O il dibattito sì, ma fino a un certo punto.

Articolo Precedente

‘La profezia del Don’, il ritratto di un uomo che ‘ti riportava allo stato delle cose’

next
Articolo Successivo

Hamletmachine 30 anni dopo, a Vicenza la scena ruota

next