Meno male che il Dalai Lama venne in volo e atterrò a Boccadifalco. Perché se, mai sia, fosse venuto in treno, la pantomima della città lustra, bella e pulita sarebbe stato assai più difficile metterla in scena. Perché chi arriva a Palermo in treno ha l’impatto più devastante, e più vero, con la città. Con la città tutta, non solo con le parti “nobili”, i quartieri da salotto buono.

Il primo, appena messo piede fuori dalla stazione, è un muro di lamiere e lavori in corso. Sono lì da un po’ prima delle guerre puniche, e a passarci davanti per mesi e mesi, a quel muro di lamiere, viene da pensare a complicate infrastrutture elettroniche che servono a coordinare l’arrivo e le partenze dei treni, il passaggio degli autobus, lo smistamento dei taxi. Niente del genere. L’altro giorno, mentre ci passavo davanti, l’animo della portinaia che mi alberga dentro ha preso il sopravvento, e ho appoggiato l’occhio a una feritoia. Un marciapiede. Stanno facendo un marciapiede. Mancano mattonelle qua e là ma è sostanzialmente finito. Solo che sono mesi che quelle dieci, quindici mattonelle non vengono posate e la stazione resta così, avvolta in questo bozzolo di lamiere fatiscenti che se ci inciampi contro il tetano è il meno che ti puoi pigliare. Chissà quando, ci sarà poi un nuovo appalto che smantellerà tutto quello che è stato fatto per rifarlo da capo. Sempre senza completarlo, s’intende. Perché Palermo è l’eterna incompiuta, talmente tanto che potrebbe dare dei punti a Franz Schubert.

A corredo, un odore nauseante. L’odore di quei posti che un lavastrada non l’hanno mai visto, una disinfestazione non l’hanno mai conosciuta. Non è l’odore umano, le puzze quotidiane di bipedi scarsamente inclini all’igiene. No. E’ l’odore dello sporco. Luride le strade, i vicoli, i marciapiedi. Lurida l’aria caliginosa. Luridi perfino i giardinetti al centro della piazza: anche quelli rigorosamente transennati e con rotoli di nastro bianco e rosso a sottintendere che anche lì ci son lavori in corsi. Quali? Non si capisce. Ci sono. Se non ci sono ancora, ci saranno. Questione di tempo.

A proposito poi degli autobus, c’è da dire che il delirio dissociativo raggiunge vette inimmaginabili. Non so se avete presente il tragitto che fanno il 101 e il 102. Dalla stazione è praticamente lo stesso fino alla fine di via Roma. Ora, tutti gli autobus fanno fermata davanti alla pensilina della stazione. Tutti, tranne il 101. Lui no. Lui fa fermata di lato, una settantina di metri più in là, giusto per complicare la vita di chi potrebbe pigliare indifferentemente un mezzo o l’altro ed è costretto a restare a mezza strada tra le due fermate, addossato alle lamiere per non esser travolto dalle auto sfreccianti come sul circuito di Montecarlo e sempre all’erta e col collo lungo come i suricati per vedere quale dei due autobus passi per primo e correre alla fermata giusta. Una specie di variante dei quattro cantoni, ma più psicopatica.

Mettiamo caso che vogliate adesso avventurarvi oltre la stazione, dalla parte opposta di via Roma, in quella terra di nessuno che è il quartiere di via Oreto vecchia. Se date un’occhiata ai siti dei b&b vi renderete conto che la zona intorno alla stazione ne è piena. Compresa via Oreto.

Ora, dobbiamo essere onesti. A parte qualche casetta più graziosa, degli anni Trenta, e qualche palazzinetta degli anni Cinquanta, via Oreto vecchia è brutta. Veramente brutta. E lo stato di abbandono in cui versano le facciate delle case rende tutto ancora più triste e disgraziato. Scrostate, semidiroccate, annerite, decrepite. Tanto la maggior parte dei proprietari mica ci abita: affitta in nero agli africani, che a queste cose non ci fanno caso, o a chi è talmente miserabile che non può permettersi altro, e figuriamoci se guarda la facciata. Qualche decennio fa anche il centro storico di Salerno era così. Poi arrivò qualcuno che lo sapeva fare davvero e lo trasformò in un gioiellino. Altra pasta, si capisce.

Quelli che qui pomposamente chiamano negozi, sono ricettacoli di chincaglieria e ripugnanza: panifici con ciambelle lasciate per ore in vetrina al sole e alveoli di mosche, un’uccelleria con piccioni, galline e conigli nani in gabbie repellenti, un antro senza insegna in cui non si capisce bene che si vende, cineserie, una vetrina con orripilanti scarpe di plastica dorata e poco più avanti un’altra vetrina di pacchiane statuette dipinte in tutte le nuances dell’oro e dell’orrore.

E lavori in corso. Tanti. Una buca qui, uno scavo là, tutti con l’aria desolata di qualcosa lasciato a metà per essere ripreso e forse finito dio sa quando e da chi. Tanto qui ci stanno gli africani e a certe cose non ci fanno caso. Tanto qui ci sono i miserabili e a certe cose non si possono permettere di farci caso.

I marciapiedi sono un percorso degno di Giochi senza frontiere. Anch’essi qua e la sventrati dai lavori in corso mai terminati. Davanti alla scuola, una voragine da cui fuoriescono ferri arrugginiti alti mezzo metro: a inciampare lì intorno si rischia di finire impalati negli spuntoni che manco il conte Vlad. E i bambini hanno l’argento vivo addosso, si sa: corrono sempre. E inciampano. Questione di tempo. Ma tanto qui ci stanno gli africani e a certe cose non ci fanno caso. Tanto qui ci sono i miserabili e a certe cose non si possono permettere di farci caso.

E poi, a coronamento, la munnizza. L’odore dolciastro e nauseabondo della decomposizione si sente da lontano. Nelle giornate di caldo torrido è agghiacciante. Ogni tanto sparisce qualche cassonetto, qualche punto di raccolta. E gli altri punti traboccano. Un parco giochi senza fine per scarafaggi grossi come granchi e topi famelici in costante riproduzione come conigli. Se non ritirano neanche la spazzatura, che marcisce per giorni sotto il sole, pensare a una disinfezione è pura utopia. Vecchi materassi strappati e lavatrici arrugginite fanno tanto arredo urbano postmoderno. O no?

Infine, scende la sera. Il traffico selvaggio in quella strada che è un budello si placa, le saracinesche si chiudono, le finestre si accendono, e per le strade arrivano i presìdi. Gruppetti di ragazzini poco più che adolescenti. Teppistelli autonomi o messi lì a sorveglianza, vallo a capire. Si muovono in branco e se capiti nel mirino la tua serata può avere inaspettate complicazioni. Tanto qui ci stanno gli africani e a certe cose non ci fanno caso. Tanto qui ci sono i miserabili e a certe cose non si possono permettere di farci caso.

E tanto qui il Dalai Lama non ci metterà mai piede. Degli altri, chissenefrega!

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