Dopo aver sentito la notizia alla radio, ho capito che l’affaire Ryanair era roba seria quando al bar ho aperto il Corrierone e ho trovato la livrea gialloblù della compagnia irlandese stampigliata in apertura di giornale. Non che i quotidiani, pure quelli blasonati, non riempano le prime pagine con questioni poco credibili – tipo Salvini che si autoelegge premier – ma questa è un’altra storia, come si suol dire. Una storia vera.

Ryanair ha annunciato che dal 18 settembre a fine ottobre sforbicierà quasi 2mila voli, 50 ogni giorno. Uno su quattro doveva partire dal nostro Paese, mentre un collegamento annullato su sette era destinato a un aeroporto italiano. In tutto saranno 400mila i passeggeri che pagheranno le conseguenze di questa grottesca vicenda, molti dei quali chiederanno rimborsi che potrebbero arrivare a 20 milioni di euro, secondo le previsioni della stessa Ryanair.

Cifre enormi, starete pensando. Macché. Questi numeri sono robetta per una società che nel 2015 ha emesso oltre 100 milioni di biglietti, trasportando solo in Italia quasi 30 milioni di passeggeri (120 milioni in tutto il mondo), e che nel 2016-2017 si è piazzata al primo posto al mondo per i viaggi internazionali, mettendo a segno un utile monstre di 1,31 miliardi di euro. Un prodigio di redditività, realizzato perlopiù grazie a una politica dei costi aggressiva e perennemente al ribasso, in grado di trasformare più del 20% dei ricavi in utile netto.

Il pasticciaccio brutto di questi giorni è il risultato di politiche che negli anni hanno spinto a mille il corpaccione di Ryan, facendolo lavorare come una macchina costantemente su di giri che si è preoccupata poco dei pezzi che la sua iperattività si lasciava alle spalle. Come spesso succede in questi casi, ci vuole poco che un bullone rimbalzi e finisca nel motore. È bastata infatti una richiesta dell’autorità irlandese per i voli di cambiare calendario – passando da quello marzo-aprile dell’anno successivo a quello gregoriano, gennaio-dicembre – per provocare un cortocircuito nella diluizione delle ferie dei piloti. Tutti coloro che non sono andati in vacanza questa estate hanno fatto richiesta ora, così Ryanair si è trovata – a fronte di rotte sempre più numerose – a gestire vuoti di personale, aggravati anche dalla fuoriuscita di altri piloti verso compagnie come la Norwegian.

Risultato? Quello che per anni era sembrato un giochino perfetto pare esploso all’improvviso nelle mani del suo fondatore. A questo proposito mi viene in mente che, parlando di Ryanair con gli addetti ai lavori, ho più volte sentito pronunciare questa frase: “Appena fanno un errore sono finiti”. Dietro un’affermazione come questa, certo lontana dalla realtà, si nasconde un dubbio di fondo. Parlo dell’impressione, che Ryanair si muovesse perennemente sul filo del rasoio su questioni delicate, dagli stipendi dei dipendenti alla sicurezza dei suoi stessi aerei.

Ora: se per quanto riguarda la questione sicurezza dei vettori è ormai ampiamente assodato che le low cost devono rispettare gli stessi standard delle compagnie tradizionali, molto ci sarebbe da dire sul versante dipendenti. Dei tanti articoli che ho letto negli ultimi due giorni, vorrei segnalarne due, forse i più interessanti: questo, pubblicato dal Corriere, con il riferimento allo steward “piazzisti di profumi” e queste dichiarazioni apparse su Vanity Fair, pronunciate da un ex comandante della compagnia che presagisce un uscita in massa dei piloti.

Insomma, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Ora però che succede? Poco o nulla. Dall’anno prossimo, con la gestione gennaio-dicembre, tutto probabilmente tornerà come prima. A fronte di un biglietto Ryanair meno caro di quello offerto da un’altra low cost o da una compagnia di bandiera, difficilmente il passeggero sceglierà il biglietto più costoso solo perché memore di questa storia.

Pensate ad Amazon: non mi risulta che i clienti di Bezos siano diminuiti dopo le tante inchieste che hanno accusato la società americana di bistrattare i suoi lavoratori. Insomma, è probabile che anche in questo caso il danno d’immagine rientrerà e questo disastro settembrino sarà per O’Leary solo un brutto ricordo. A volte però sono proprio i brutti ricordi a impedirci di fare nuovi, fatali errori.

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