Ho molto apprezzato le ultime posizioni del governo e delle istituzioni riguardo al contrasto alle bufale. Alcuni enti hanno messo in campo una task force per osteggiare la diffusione di notizie false e finalmente anche i media sembrano aver compreso che un’informazione di qualità è preferibile a un pugno di clic. Per fortuna, soprattutto sui vaccini, in pochi hanno dato retta alla corte dei miracoli che offriva improbabili analisi di presunti inquinanti dietro lauto pagamento e spacciava falsità varie ai genitori, tipo l’omeopatia per disintossicare da ipotetici “metalli pesanti”. Per fortuna, questa volta la politica e l’informazione hanno lavorato per il bene comune, non lasciandosi ingannare dagli stregoni 2.0.

Vaccinare non solo porta benefici a tutta la società perché impedisce la diffusione di malattie potenzialmente gravi, ma è utile soprattutto ai singoli. Anche se i vaccini possono presentare dei rischi marginali, questi sono infinitesimi rispetto a quelli delle patologie che prevengono. Ad esempio, la probabilità di una reazione allergica grave al vaccino contro il morbillo è dell’ordine di uno su un milione, invece quella di lasciarci le penne a causa di questa malattia può arrivare a una su mille. [Se volete approfondire il tema, in edicola trovate Fq Millennium, “Il vaccino dell’obbligo”]

Una situazione analoga, estremamente conveniente per i singoli e per la collettività, è frequentare l’università. È vero che ci sono facoltà che una volta completate hanno un tasso di occupazione superiore di altre, ma se il confronto si esegue con i diplomati, i vantaggi in termini di tasso di occupazione sono enormi. In media, persino i laureati della “peggiore” facoltà trovano lavoro più facilmente dei diplomati, e i diplomati di più di chi ha la semplice licenza media.

Inoltre, una società più istruita compie scelte più consapevoli. Nessuno otterrà il lavoro che desidera in modo automatico, ma è chi frequenta l’università che avrà le occasioni migliori. È come iniziare la partita a poker della vita con una coppia d’assi. La vittoria non è garantita, ma le probabilità di successo sono sicuramente maggiori.

Se nel campo della sanità la politica italiana ha finalmente capito che affidarsi a maghi e ciarlatani porta solo a danni, quando si tratta del mondo dell’università e ricerca va ancora dietro ai pifferai magici. Eppure, la narrazione che abbiamo ascoltato negli ultimi anni ricalca perfettamente il copione di quella delle pseudoscienze. L’università sarebbe inutile agli studenti e strumentale solo per accrescere la corte di parenti e amanti dei cosiddetti “baroni”; nessuna università italiana sarebbe “tra le prime cento al mondo” e per questo serve una “cura magica” che si può riassumere in tagli su tagli. Mentre le forze della cosiddetta “sinistra” si sono inizialmente opposte alla cosiddetta “riforma Gelmini”, una volta al governo sono diventate protagoniste di azioni che, a causa della loro totale irrazionalità, avrebbero causato una sollevazione popolare qualche anno fa: le cosiddette “cattedre Nattai 3000 euro solo al presunto 75% dei ricercatori migliori, la superformula magica per punire i dipartimenti nei quali siano presenti docenti che, per una rivendicazione sindacale, non hanno partecipato alla VQR 2011-2014.

L’unico effetto palpabile della “riforma” sono stati i tagli. L’unico contributo tangibile dei governi successivi è stato aggiungere ulteriori tagli. Le poche risorse sono state ancora di più accentrate nelle mani di coloro i quali hanno una rete di conoscenze più solida, altro che “meritocrazia e lotta ai baroni”.

L’università (e l’istruzione in generale) rappresenta un bene comune. Chi ha a cuore lo sviluppo del paese, a partire da Confindustria, dovrebbe avere tutto l’interesse a promuoverne lo sviluppo, e non certo andare dietro a chi afferma “le classifiche d’università sono importanti”. Anche se lo eventualmente lo fossero, bisognerebbe chiedersi come mai le università italiane continuino a perdere posizioni. Forse perché l’unica correlazione significativa è proprio con i fondi a disposizione degli atenei?

Credere che la valutazione abbia qualcosa a che vedere con le classifiche d’università non è tanto diverso che dare retta alle “mamme informate sui vaccini” o credere alle “scie chimiche”. Ecco qualche altra fandonia riguardo l’università che si può facilmente smentire: i professori italiani sarebbero tra i più pagati al mondo, la bufala delle omonimie tra i cognomi dei docenti come “misura scientifica del nepotismo” e l’improbabile classifica dei migliori atenei italiani quando in realtà il ranking è semplicemente basato sull’ordine alfabetico.

Come si può discutere in modo serio di università e ricerca? Per esempio partecipando all’assemblea pubblica indetta il 21 settembre alle ore 10.30 presso l’Aula Prima delle facoltà di Lettere e Filosofia a Sapienza, evento all’interno del quale gli aderenti allo “sciopero della docenza” parleranno con chi ha a cuore l’istruzione. Si è maldestramente tentato di etichettare lo “sciopero dei docenti” (un successo enorme: già 8.000 colleghi hanno incrociato le braccia, e c’è tempo ancora fino al 31 ottobre per partecipare) come una semplice rivendicazione salariale. La posta in gioco è molto più alta: Andrea Bellelli qui ha già esposto le motivazioni principali in modo molto chiaro.

I soldi sono lecitamente importanti, perché non si può pretendere un servizio di qualità senza essere disposti a pagarlo il giusto, ma la questione vera è spiegare perché disinvestire sull’istruzione e università rappresenti una politica suicida a lungo termine. Tanto stupida e foriera di conseguenze pesanti quanto risparmiare i soldi per i vaccini e dare retta a ciarlatani vari. I parlamentari sembrano aver compreso quali sono i danni causati dal credere agli incantatori di serpenti nell’ambito della salute. Quanto ci vorrà ancora per riportare le politiche nel campo dell’istruzione e ricerca sui binari del pensiero razionale?

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