Dopo la crisi, la spesa sostenuta dall’Italia per contrastare la disoccupazione “è aumentata notevolmente”. Ma “la distribuzione di questa spesa è stata iniqua: nel 2013 solo il 18% dei 30 miliardi totali spesi per il finanziamento di politiche attive del lavoro era a beneficio anche dei giovani. I restanti 24 miliardi erano dedicati a politiche passive che sostenevano la disoccupazione dei lavoratori a tempo indeterminato, da cui spesso i giovani erano esclusi”. Il risultato è che “l’indicatore che rappresenta la correlazione tra il reddito di un individuo e quello dei suoi genitori e che assume valori fra 0 e 1, in Italia è 0,5 contro lo 0,323 della media europea, ossia quasi due volte peggiore”. A evidenziarlo, in un paper pubblicato il 12 settembre, è la ex consigliera economico di Palazzo Chigi Carlotta de Franceschi, fondatrice del think tank Action Institute nel cui comitato scientifico siedono Guido Tabellini (ex rettore della Bocconi), Alberto Alesina e il premio Nobel per l’economia Michael Spence.

Il report, intitolato Un Passato che grava sul Futuro. La frattura intergenerazionale che minaccia i paesi europei, la docente alla Columbia University ricorda che “trent’anni fa nei principali Paesi europei lo stipendio dei giovani era superiore alla media nazionale; oggi i neo-lavoratori percepiscono una busta paga in media il 20% inferiore rispetto a quella dei loro colleghi più anziani”. Infatti “negli ultimi vent’anni la variazione del reddito disponibile dei giovani nei Paesi sviluppati è stata negativa rispetto alla media nazionale. In Paesi come Francia, Stati Uniti e Italia, un giovane under-35 dispone di un reddito inferiore rispetto a un pensionato sotto gli ottant’anni”. E l’intervento pubblico ha peggiorato la situazione: “In Europa, le scelte di spesa pubblica portate avanti negli ultimi anni hanno contribuito ad accrescere la frattura intergenerazionale. Le politiche di austerità hanno compresso le voci di bilancio più flessibili, come l’istruzione e la spesa per le famiglie, rispetto a quelle politicamente più costose quali pensioni e sanità“.

Nel 2015, con il Jobs Act che ha introdotto una forma universale di sussidi alla disoccupazione e sgravi alle nuove assunzioni, “la spesa per la disoccupazione ha incluso anche le giovani generazioni”, aggiunge De Franceschi. Ma l’Italia resta “un Paese basato sulle pensioni, piagato da una grave immobilità sociale, con una dilagante emigrazione e gravato da un pesante debito pubblico. Per quanto riguarda il primo punto, in Italia per quasi due terzi delle famiglie con pensionati, i trasferimenti pensionistici rappresentano oltre il 75% del reddito complessivo disponibile, mentre per il 26%, rappresentano l’unica fonte di reddito”. Per quanto riguarda la
situazione sociale, “l’intergenerational earning elasticity, indicatore che rappresenta la correlazione tra il reddito di un individuo e quello dei suoi genitori e che assume valori fra 0 e 1, in Italia è 0,5 contro lo 0,323 della media europea, ossia quasi due volte peggiore. Una sintesi della situazione è offerta dalla curva Grande Gatsby che mette in correlazione disuguaglianza e mobilità sociale intergenerazionale. I paesi con bassi livelli di disuguaglianza ed alti livelli di mobilità sono quelli scandinavi, Italia ed Inghilterra sono i Paesi in Europa con la minor mobilità sociale e fra i peggiori per disuguaglianza“.

Nell’appendice De Franceschi ricorda la proposta del presidente Inps Tito Boeri, secondo cui occorre legare le pensioni ai contributi imponendo un “prelievo di solidarietà” su quelle non giustificate dai soldi versati durante gli anni di lavoro. Questo consentirebbe di recuperare risorse con cui aiutare le persone in povertà e dare maggiore flessibilità in uscita verso il sistema pensionistico. “Questo intervento chiede a solo il 10 per cento dei pensionati che hanno un reddito più alto, e che possiedono il 27 per cento del totale delle pensioni, un contributo medio pari a meno di un quarto di quanto non è giustificato dai contributi che hanno pagato”, scrivevano Boeri e i due coautori Fabrizio Patriarca e Stefano Patriarca. “Ciò riduce solo in parte il mare magnum delle iniquità presenti nel nostro sistema previdenziale. Ma forse farà  sentire, per una volta, i padri più vicini ai figli”.

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