BOLOGNA – A Bologna la parola “treno” evoca drammaticamente la tragica data stragista del 2 agosto 1980. Ma, sempre nel capoluogo emiliano, c’è un altro “treno”, stavolta fermo e immobile, cementificato, nel quartiere popolare Barca, due file di caseggiati, sostenute da pilastri-palafitte che, piegandosi all’orizzonte, danno il senso della curva dei binari. Che poi potremmo metterci a ragionare sull’incastro che generano le parole “barca” e “treno”, mezzi per andare, viaggiare, qui invece bloccati a terra, piantati come pioppi, dove però, ecco che arriva l’ossimoro che dona senso, vivono e convivono, tra armonia ed alcune situazioni di degrado, svariate etnie. Davanti ai due “binari” dei casermoni di tre piani, che proseguono la loro corsa per 300 metri senza soluzione di continuità, costellati da persiane verdi dove ci si affaccia su uno spelacchiato prato, è sorto il palcoscenico naturale del Trenoff, Treno fringe festival, creato e ideato dalla compagnia bolognese Instabili vaganti (Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno) che qui vicino, al centro Liv, sono stabili da otto anni (a proposito la loro convenzione scadrà a dicembre e sarebbe un peccato per questa comunità perdere il loro contributo culturale e umano). Stranisce il fatto che quest’edizione, la seconda del concorso teatrale, si sia svolta dopo cinque anni rispetto alla prima del 2012: lentezze burocratiche e politiche.

Tredici le compagnie selezionate che dovevano lavorare sul tema delle conflittualità nelle metropoli. Tre le compagnie che si sono aggiudicate i riconoscimenti, mille euro a Turconi/De Blasio con Mondo Cane, residenza artistica per C&C Company con A peso morto e menzione speciale per Respirale Teatro con Again by now: modalità differenti per descrivere gli strani giorni dell’attualità tra abbandoni e desolazioni.

E’ il rancore il cardine di Mondo Cane, titolo che è già improperio, volgare insulto e invettiva, bestemmia, acredine, acidità rancida, brutale furia verbale che però si sciorina in un ambiente invaso da un rosa shocking tendente al fucsia consolatorio e gradevole. Daniele Turconi ha quello che ogni attore dovrebbe avere: sfrontatezza, capacità di rottura, quel crack che silenzia i brusii e accoglie nei suoi occhi infuocati l’attesa del pubblico, in bilico tra l’essere pericoloso e l’accoglienza suadente. Balla feroce ma ci apre anche il cuore questo personaggio al quale adesso vuoi bene e ora faresti ingabbiare, ora perdoni adesso condanni tra fascismo, droga e altre amenità d’oggi come di ieri. Un antieroe nel quale, a morsi, a tentoni, a strappi, ci sentiamo rappresentati, nella sua borghese mediocrità, nel suo palese malessere caotico: “C’è sempre una luce in fondo al tunnel. Speriamo che non sia un treno”, balbettava Woody Allen.

Solitudine è la chiave di volta sulla quale si avvinghia “a peso morto” nelle sue spirali semantiche che ci restituiscono un anziano (in realtà un giovane danzatore che indossa una maschera perfetta che rende un volto rugoso da centenario) che, nella sua lentezza disarmante e vecchiezza manifesta, si avvia al viale del tramonto con due sporte della spesa. Buste che sono zavorre e lo tengono ancora alla vita terrena prima di librarlo nel cielo, sacchi che contengono tutta la memoria dei suoi anni giovani e ormai andati; è da una di queste borse che comincia a battere e rimbalzare una mazurca, ballo della sua primavera, che lo fa scatenare in una frizione visiva che ci regala un ottuagenario scatenato e armonico che quando prende le sue borse pare Icaro pronto all’ultimo volo. Ci dice che c’è ancora tempo, che niente è perduto, che gli anziani non sono i rifiuti che galleggiano nelle sue bustone: “Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti”, ammoniva Pina Bausch.

Incomunicabilità invece è il perno sul quale si sviluppa Again by now con i due protagonisti, un Lui e una Lei in abiti coloratissimi e raffinati, abiti da sera e gel patinato, babbucce morbide e kimono di seta, se ne stanno appollaiati su due water nel retro di un furgone. Qui boccheggiano senza parole, in chiaro scuro si muovo a scatti, bidimensionali, chiedendo aiuto al pubblico prima di essere liberati e aperti ai loro colori sgargianti, alla vita, ai fiumi di parole che si riversano contro e addosso con amorevole violenza, con dolce arroganza, con una cattiveria zuccherina. Frasi ampollose e sdolcinate, in un collage tra triste ricchezza e squallore, che li cinge e li vince. Sperando che non passino altri cinque anni prima della terza edizione del Trenoff: “La vita è il treno, non la stazione ferroviaria”, scriveva Paulo Coelho.

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