L’ultimo contentino arriva dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che propone uno “sconto” sui requisiti contributivi per le donne con figli che intendono accedere all’Ape social, l’anticipo pensionistico riconosciuto ad alcune categorie svantaggiate. “Bisogna evitare scorciatoie per affrontare il problema di fondo, la mancanza di potere contrattuale delle donne. Il problema è nel mercato del lavoro, più che nel sistema pensionistico”, ha commentato il presidente Inps Tito Boeri mettendo il dito nella piaga. Ovvero: oltre alle risorse economiche a mancare è una visione d’insieme. Una programmazione che renda strutturali le misure a sostegno della natalità e delle madri lavoratrici. Un anno fa, l’ex ministro della Famiglia Enrico Costa aveva annunciato la presentazione di un “piano organico”, con tanto di testo unico ad hoc. Ma il piano è rimasto invisibile. E nella legge di Bilancio sono stati inseriti solo interventi temporanei come il bonusMamma domani (riservato a chi ha un bimbo nel corso del 2017) e quello per l’asilo nido. Così la proposta di Poletti suona come l’ennesima toppa. “Non credo sia giusto che la riduzione dei requisiti sia applicata solo alle donne che accedono all’Ape social”, spiega a ilfattoquotidiano.it la sociologa Chiara Saraceno. Al contrario “occorre affrontare in modo più sistematico la politica di sostegno a chi si assume l’impegno di portare avanti una famiglia”. Un esempio è il buono asilo. “Gli asili nido bisogna prima trovarli”, dice la sociologa. Altro che “mille asili in mille giorni”, promessa che l’ex premier Matteo Renzi fece nel 2014 con accanto l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio che annunciava: “Vogliamo fare una misura molto forte”.

LA PROPOSTA DI POLETTI – Discutendo con i sindacati sulla ‘fase 2’ della riforma previdenziale, Poletti ha messo sul piatto uno ‘sconto’ di sei mesi per ciascun figlio (per un massimo di 2 anni), riconoscendo dunque il lavoro di cura ai fini previdenziali. Per l’accesso all’Ape social, una volta compiuti i 63 anni di età, a una donna con 4 figli basterebbero così “solo” 28 anni di contributi invece che 30 (o 34 invece di 36 per chi ha svolto lavori gravosi). La proposta parte dalla constatazione che tra i 66mila lavoratori che hanno chiesto l’anticipo pensionistico riservato alle categorie svantaggiate e pagato dallo Stato solo il 29% è rappresentato da donne. Proprio perché per loro è più difficile raggiungere gli anni di contributi richiesti. L’obiettivo del governo è quello di arrivare al 40%. Si tratta di 4mila lavoratrici in più secondo le stime di Cgil, Cisl e Uil, che ritengono però la proposta insufficiente a bilanciare lo squilibrio delle domande tra uomini e donne e, soprattutto, a sostenere le madri penalizzate dal mercato del lavoro e dall’assenza di politiche per la famiglia che vadano oltre i bonus spot.

BOERI: “RISCHIO CHE IL DATORE DI LAVORO APPROFITTI PER MANDARLE VIA” – “Questo ‘sconto’ riguarda una platea troppo limitata – spiega a ilfattoquotidiano.it Chiara Saraceno – ed è una scelta consapevole dato che le risorse sono scarse. La verità è che su questioni così importanti si investono troppo pochi soldi”. Secondo la sociologa “anche se è positivo che si riconosca che una donna che ha avuto figli ha svolto in sostanza due lavori, di cui solo uno retribuito, non è giusto ridurre i requisiti solo alle lavoratrici che accedono all’Ape social. Dovrebbero essere incluse tutte le mamme e, in situazioni particolari, i padri”. D’altro canto il peccato originale è rappresentato dalla mancanza di una politica che riconosca il lavoro di cura verso i figli “così come avviene in altri Paesi all’estero – aggiunge la sociologa – mentre a queste persone bisogna dare i contributi”. Lo ha sottolineato anche il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli: “Credo vada riconosciuto il lavoro di cura nel caso, ad esempio, della presenza in famiglia di una persona disabile e che si debba tenere conto dei figli avuti”. Boeri ha anche avvertito che in questo modo si espongono “le donne madri al rischio di essere mandate via dal datore di lavoro per ridurre la forza lavoro, obbligandole ad andare in pensione con una pensione più bassa per il resto della vita”. E “il secondo problema è quello di introdurre una discriminazione tra le donne che hanno figli e quelle che magari hanno preferito concentrarsi sulla carriera”.

IL SISTEMA DI SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA CHE NON C’È – A questi limiti si aggiunge la mancanza di una misura più ampia. Gli interventi arrivano a frammenti “che non fanno sistema – commenta la sociologa – e che rischiano di essere inutili”. Si va dal bonus di 80 euro mensili per ogni bimbo (960 euro all’anno per tre anni) alle famiglie con un reddito inferiore ai 25mila euro, fino a ‘Mamma domani’. E poi quello per gli asili nido. È ciò che è rimasto (ed è finito nella legge di Stabilità) del piano annunciato giusto un anno fa dall’ex ministro Enrico Costa. Ma nel Documento di economia e finanza era stata inserita la previsione di un Testo unico della famiglia. Obiettivo dichiarato: il riordino della materia e una semplificazione delle norme. Ad oggi non c’è nulla di tutto ciò. “Nessuno dice di fare tutto insieme – aggiunge la sociologa – ma è necessario disegnare un percorso e fare passi coerenti tra di loro”. È in discussione al Senato un disegno di legge delega che prevede l’assegno universale per i figli a carico, ma è stato proprio Stefano Lepri, il senatore dem che dà il nome al testo, quest’estate, a frenare gli entusiasmi spiegando che è difficile recuperare i 2 miliardi che servirebbero per avviare il suo ddl.

I 229 MILIONI PER GLI ASILI? BLOCCATI -In questo quadro, commenta Saraceno, “che senso ha dare un bonus per gli asili se le mamme hanno grandi difficoltà a trovarli, gli asili? Molto meglio investire per aumentare il numero dei nidi e lavorare sulle tariffe”. Mica facile. “Proprio giorni fa – aggiunge la sociologa – ho scoperto che i 229 milioni previsti dal decreto legislativo sul ‘sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni’ del gennaio 2017 e stanziati per i nidi sono bloccati”. La competenza è delle Regioni e non del ministro dell’Istruzione “quindi bisogna passare dalla conferenza Stato-Regioni e, ad oggi, non si è deciso né come distribuirli né come spenderli”. Non si tratta di un problema di secondaria importanza se, secondo i dati Istat, sui 13.459 asili nido esistenti in Italia il 35% è pubblico e il 65% privato per un totale di 360.314 posti disponibili (163mila nei pubblici). Solo il 12% dei bambini fino a 2 anni usufruisce del nido pubblico. Un bambino su cinque resta in attesa, gli altri devono per forza andare in un asilo privato. Le liste di attesa però sono lunghe e le rette alte: in media 300 euro al mese con picchi di 440, e nei privati si sale oltre i 500. Così sono sempre di più le famiglie che rinunciano.

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