E’ una risoluzione edulcorata quella approvata lunedì pomeriggio dal consiglio di sicurezza dell’Onu contro la Corea del Nord: nessuna misura coercitiva contro Kim Jong-un (di cui si era ventilato il congelamento dei beni e un divieto di espatrio) e soprattutto nessun controverso embargo sul petrolio. Piuttosto si attuerà un divieto sui condensati e liquidi di gas naturale, con un massimo di due milioni di barili all’anno sui prodotti petroliferi raffinati e un limite sulle esportazioni di greggio verso la Corea del Nord. Come da previsione, rimane valido il tappo sull’acquisto di prodotti tessili nordcoreani, che dopo il carbone costituiscono il fiore all’occhiello dell’export di Pyongyang e di cui la Cina è il primo acquirente. Ma non si procederà più a un divieto assoluto sull’assunzione di lavoratori nordcoreani all’estero (preziosa fonte di rimesse per il regime), che in futuro dovrà piuttosto essere sottoposta all’attenzione di un comitato del Consiglio di Sicurezza.

“Se [Pyongyang] accetterà di bloccare il suo programma nucleare, potrà ancora recuperare il suo futuro. Se dimostrerà di poter vivere in pace, il mondo vivrà in pace con lei”, ha spiegato al Consiglio di Sicurezza Nikki Haley, ambasciatrice Usa all’Onu, aggiungendo che “non è stato ancora oltrepassato il punto di non ritorno”.

L’ottava tornata di sanzioni – che si va ad aggiungere al precedente divieto sulle importazioni di carbone, ferro, piombo e prodotti ittici nordcoreani approvato a inizio agosto – arriva a pochi giorni dal sesto test nucleare di Pyongyang (dieci volte più potente di Hiroshima) e mentre cresce il timore per un nuovo test balistico con l’isola di Guam come prossimo target. Ma difficilmente le nuove misure “soft” indurranno Kim Jong-un a sventolare bandiera bianca. Nella giornata di lunedì, commentando una prima bozza circolata sulla stampa estera, l’agenzia statale KCNA ha sostenuto che gli Usa dovranno fronteggiare “azioni più severe di quanto non si aspettino”.

Il testo finale sembra strizzare l’occhio a Cina e Russia, principali partner commerciali e fornitori di petrolio del Nord, nonché membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con potere di veto. La scorsa settimana, discutendo la crisi nordcoreana con il presidente sudcoreano Moon Jae-in in visita nel Far East russo per un summit economico, Putin aveva rigettato l’ipotesi dell’embargo definendola “inutile e improduttiva”, oltre che foriera di una crisi umanitaria che priverebbe la popolazione nordcoreana dei servizi di base. Un’analisi su cui concordano gli esperti, piuttosto propensi a ritenere Pyongyang perfettamente in grado di gestire – almeno nel breve periodo – le sue operazioni militari grazie alle riserve petrolifere accumulate e a un taglio del 40% nell’impiego civile di oro nero, sostituibile con altri combustibili.

In opposizione ai venti di guerra che spirano sull’altra sponda del Pacifico, Cina e Russia continuano a farsi risolutamente promotrici di una soluzione diplomatica basata su “una doppia sospensione”: il congelamento del programma nucleare nordcoreano in cambio di un’interruzione delle esercitazioni congiunte tra Washington e Seul. Di fondo c’è una profonda diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, che Pechino e Mosca ritengono responsabili almeno quanto Kim Jong-un dell’escalation, per via dell’ostinazione con cui si sono sempre rifiutati di avere colloqui diretti con Pyongyang per firmare una pace definitiva dopo il conflitto degli anni Cinquanta. Insomma, Russia e Cina pensano che Washington cavalchi l’escalation con l’intento di mettere a segno il famoso pivot to Asia vagheggiato da Obama.

D’altronde, non è un mistero che a distanza di pochi mesi dal celebrato incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping, i rapporti tra le due superpotenze evidenzino le prime crepe. Senza troppi giri di parole, il presidente americano ha più volte dato sfogo alla sua frustrazione per l’aiuto inefficace fornito da Pechino sul versante nordcoreano. Nell’attesa di formare una rosa di esperti di “cose cinesi”, questo mese il compito di oliare le problematiche relazioni con il gigante asiatico sarebbe dovuto toccare a Ivanka Trump e Jared Kushner, le due figure vicine a “The Donald” più amate dal pubblico cinese. Ma l’improvviso annullamento di una visita oltre Muraglia – sbandierata a giugno dalla Casa Bianca – sembra confermare le speculazioni nell’aria da tempo. E chissà che lo stesso non avvenga proprio con Trump, atteso in Pechino entro la fine dell’anno.

La scorsa settimana, in un colloquio telefonico “molto franco” con Xi, Trump ha assicurato di non considerare l’opzione militare come “prima scelta.” Ma l’attivismo statunitense nel Pacifico congiuntamente alle reiterate minacce trumpiane di scatenare “fuoco e furia” sul Regno Eremita inquietano non poco la leadership cinese.

Ieri, commentando la dichiarazione del senatore John McCain alla CNN sulla reintroduzione di armi nucleari in Corea del Sud (“da prendere seriamente in considerazione”), il nazionalista Global Times ha accusato Washington “di militarizzare l’Asia nord-orientale attraverso l’approvazione della vendita di armi ai suoi alleati, usando la proliferazione nucleare della Corea del Nord come pretesto”. “Ciò rappresenta una minaccia per la sicurezza dei paesi regionali, come Cina e Russia, mentre la continua corsa agli armamenti, quali l’High Altitude Area Terminal [THAAD] rendono la situazione regionale più pericolosa”, spiega il tabloid affiliato all’ufficialissimo People’s Daily citando il controverso sistema antimissile dispiegato dagli Usa a sud di Seul e di cui Pechino si considera il vero target.

Ma se per Xi e compagni la vera causa della crisi nella penisola è da attribuirsi alla muscolarità americana, per Washington è nella scarsa collaboratività cinese che sta l’origine del problema. Tanto che la Casa Bianca avrebbe già al vaglio un ordine esecutivo per l’imposizione di sanzioni contro tutti quei paesi che si incaponiscono a intrattenere rapporti d’affari con Pyongyang. Messaggio chiaramente diretto a Pechino e Mosca, che foraggiano il regime de Nord rispettivamente con 800mila e 160mila tonnellate di petrolio l’anno.

L’ipotesi di “sanzioni secondarie” contro il gigante asiatico sembra ancora un’ipotesi ancora piuttosto remota data l’interdipendenza economica tra le due superpotenze. La scorsa settimana l’ex funzionario del dipartimento del Tesoro Adam Szubin ha messo in guardia il Senate Banking Committee dai contraccolpi che un intervento sulle banche cinese finirebbe per avere sull’economia della Repubblica popolare e, di riflesso, sulla performance statunitense.

La Cina, da parte sua, non se ne sta con le mani in mano. Secondo Kyodo News, Pechino avrebbe già bloccato le transazioni dei conti nordcoreani presso le banche statali cinesi, oltre ad averne vietato l’apertura di nuovi presso gli uffici di Bank of China, China Construction Bank e Agricultural Bank of China nella provincia nord-occidentale del Jilin. La mossa sembra mirata ad evitare sanzioni come quelle applicate dagli Usa contro Bank of Dandong, individuata a giugno tra le principali fonti di riciclaggio di denaro sporco per conto di Pyongyang.

Tagliare le fonti di valuta forte è tra gli obiettivi rincorsi da Washington, che lo scorso anno ha isolato il Regno eremita dal sistema bancario statunitense. Secondo dati analizzati dal New York Times, nonostante le misure messe in atto finora da Pechino contro l’export nordcoreano, il deficit commerciale tra i due paesi ha raggiunto quota 1 miliardo di dollari dal momento che, in barba alla stretta sul credito, Pyongyang ha continuato inspiegabilmente ad aumentare i propri acquisti cinesi.

Secondo un rapporto rilasciato dalle Nazioni Unite nel weekend, da febbraio la Corea del Nord è riuscita a intascarsi almeno 270 milioni di dollari esportando “quasi ogni tipo di commodity vietata dalle sanzioni”. E adesso che la Cina si sta mettendo in riga è ai contrabbandieri russi, attivi tra i porti di Vladivostok e Rajin, che guarda il dipartimento del Tesoro americano.

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